Don Giovanni

Un brindisi a Trasimaco!

“(…) tu pensi che i pastori o i bovari ricerchino il bene delle pecore o dei buoi, e li ingrassino e li curino con uno scopo diverso dal bene proprio e dei loro padroni; allo stesso modo credi che i governanti delle città (…) ricerchino giorno e notte qualcos’altro che il modo di trarne un vantaggio personale. (…) Se uno viene sorpreso a commettere ingiustizia in un singolo ambito, viene punito e riceve il massimo biasimo (…); ma quando uno ha ridotto in schiavitù i propri concittadini, oltre a essersi appropriato delle loro ricchezze (…), guadagna la reputazione di uomo felice e beato…” (Trasimaco in Platone, Repubblica, I, 343b)
A dispetto delle rampogne che si attira e dei ragionamenti che conducono i suoi interlocutori a risultati opposti, il sofista Trasimaco aveva già capito tutto: tradotto in in termini odierni, il “bene comune” è una bella fanfaluca, perché in realtà coincide con il vantaggio di chi comanda. Certo che il pastore si prende cura delle pecore, ma solo perché vuol ottenere lana buona. Allo stesso modo, i governanti hanno interesse ad avere sudditi di sana e robusta costituzione, perché la carne da cannone dev’essere eccellente;  i sudditi malaticci, poi,  sono improduttivi, e se sono improduttivi c’è poco da estorcere: dalla miseria si attinge miseria. Cinismo? No, realismo.
Che cosa si è soliti rispondere ad argomentazioni come queste? Alla plebe di Roma che aveva disertato per protesta la città il patrizio Menenio Agrippa raccontò la favoletta delle membra che si ribellano allo stomaco, ma poi deperiscono anche loro. Quindi i sudditi facciano i sudditi ei capi facciano i capi, in nome del bene di tutti. Platone propone una repubblica governata dai filosofi, cioè quelli che conoscono l’ “epistème” , la vera scienza. Risposta a Menenio Agrippa: chi ha detto che lo stomaco devono essere i patrizi, e le membra i plebei? Facciamo cambio! Risposta a Platone: oggi i filosofi sarebbero i tecnici e gli esperti, i superlaureati in economia e finanza con tanto di “master” conseguiti nelle più prestigiose università, gli ex rettori della Bocconi, i premi Nobel barbuti che sdottoreggiano dalle pagine di quotidiani prestigiosi.  Dio ce ne scampi e liberi, ne sappiamo qualcosa. Ve l’immaginate una repubblica governata dalle Yellen e dai Draghi, per tacere dei Monti e delle Fornero e di altre lugubri figure del genere? O magari da Paul Krugman? Mi si aggriccia la pelle solo a pensarci…
A questo punto hanno buon gioco i teorici della democrazia liberale: presa coscienza che chi comanda fa l’interesse proprio e dei propri sostenitori, ben venga un sistema che, attraverso libere elezioni, veda alternarsi al governo  forze politiche diverse, portatrici di interessi difformi o addirittura opposti. Ciascuna di esse, giunta al potere, favorirà i suoi membri e i e i suoi elettori; ma le sue tentazioni partigiane saranno tenute a bada non solo dalle norme costituzionali e dalla dialettica parlamentare, dove l’ opposizione farà sentire la sua voce, ma anche dalla consapevolezza  che, al prossimo turno, potrà essere il partito avverso a sedere sugli scranni del governo.
Tutto bene, vero? Eh, no, i conti non tornano. Elettori ed eletti non sono la stessa cosa. Gli eletti governano senza vincolo di mandato e formano una casta ben distinta da chi li legittima attraverso il voto. I loro interessi divergono da quelli di chi non fa parte della cricca; convergono in gran parte con quelli della la burocrazia pubblica, diventata ormai elefantiaca e tentacolare : insieme formano l’ossatura dello Stato, che prospera parassitariamente grazie ai proventi dell’imposizione fiscale gravante sui ceti produttivi. Quindi da una parte abbiamo gli sfruttatori appartenenti alla classe governante e burocratica, dall’altra gli sfruttati che producono ricchezza per vedersene sottratta una quota cospicua a favore dei parassiti. Non avvengono rivolte perché si stabiliscono legami di vario genere, attraverso scambi di favori, fra i membri delle due classi. Una banca privata è troppo grande per fallire, necessita di sostegno pubblico; una casa automobilistica aperta al mercato mondiale non può chiudere, lasciando sul lastrico migliaia di operai: bisogna puntellarla anche col denaro di chi si è sempre servito presso marche concorrenti. Favori e controfavori. I burocrati pubblici sono inamovibili e nessuno si cura della loro  efficienza. I dirigenti al livello più alto della gerarchia percepiscono stipendi da favola e pensioni d’oro. Chi siede in parlamento si stabilisce da sé i propri emolumenti. Non dimentichiamo, infine, che il “welfare” fu inventato da Bismark per indebolire le lusinghe del verbo socialista e mantenere la pace sociale: sicurezza sociale in cambio di libertà; e la libertà piace a pochi. Che motivo c’è di ribellarsi? Le democrazie liberali diventano in questo modo  democrazie mafiose, per chiamarle con un epiteto corrispondente al titolo di un vecchio pamphlet di Panfilo Gentile che sarebbe opportuno andarsi a rileggere. Tanto più che spesso con le mafie vere sono segretamente in combutta.
Torniamo alla democrazia degli antichi, dove il popolo governava direttamente! Gli strumenti di questo portento una volta si chiamavano plebisciti, adesso referendum. Modello: la Confederazione Elvetica. Lì sì che è il popolo a  governare! Referendum su tutto, dalle questioni più modeste a quelle più delicate: cessi pubblici da una parte, matrimonio dei culattoni dall’altra. Com’è bello credere alle favole! Guardiamo che cos’è successo nel referendum elvetico dello scorso giugno, in cui si doveva decidere se mantenere o no una legge da poco approvata che trasformava il canone televisivo da tassa per chi possiede un apparecchio video in imposta a carico di tutte le famiglie e delle imprese superiori a una certa dimensione. Visto che la riforma prevedeva anche una riduzione del canone, si sarebbe detto che il “popolo” avrebbe votato per il mantenimento della legge, cioè a favore della nuova imposta. Così è stato, con una maggioranza risicatissima, però. Le associazioni imprenditoriali, che avevano richiesto il referendum sperando in un responso negativo, hanno votato contro, com’era logico: le imprese non avevano mai pagato il canone, perché dovevano incominciare a pagarlo? Anche il Canton Ticino ha votato contro. Perché? Perché attualmente paga un 4% del canone complessivo, ma riceve per la propria Tv pubblica il 20% delle risorse: con la nuova legge si rischia una ripartizione meno sbilanciata. Morale: ogni gruppo vota nel proprio interesse, il cosiddetto “bene comune” dipende dalla preponderanza di un gruppo rispetto agli altri. In questo caso hanno vinto, di strettissima misura, quelli che volevano il canone più basso. Fra una tassa (equa, perché corrispettiva di un servizio specifico) e un’imposta (iniqua, perché gravante indiscriminatamente su tutti), ha vinto l’imposta. Ritorna in ballo Trasimaco: “Giustizia è l’interesse di chi comanda ed è più forte”. Non è detto, poi, che il più forte corrisponda alla maggioranza effettiva della popolazione. Nel caso del referendum elvetico di cui parliamo, la maggioranza risicatissima uscita dallo scrutinio delle schede è in realtà una minoranza, visto il consistente numero di chi ha disertato le urne.
C’è infine chi, orfano di Marx, sogna ancora, in un futuro più o meno lontano, una democrazia “vera”, non si sa bene come fatta, in ogni caso diversa da quelle finora sperimentate. Anche quella ateniese, dopo tutto, era un compromesso fra demos e aristocrazia. Anche lì, a comandare veramente erano i ricchi, sia pure con il consenso dell’assemblea: Pericle era ricco e nobile. Invece la democrazia dev’essere il governo dei poveri, del proletariato, anche nel caso in cui i poveri siano minoranza: lo diceva già Aristotele, che pur della democrazia radicale non era molto amico.
Capito? E poi gli utopisti sarebbero i libertini come me, che farebbero subito un bel falò sia dello Stato, in qualsiasi forma, sia della democrazia, antica e moderna, delegata e referendaria, dei ricchi e dei poveri. Può anche darsi che lo Stato sia destinato a non morire mai, per nostra disgrazia. Ma io almeno non porto un paio d’occhiali che mi fa vedere rosa quel che rosa non è… Un brindisi a Trasimaco!

Giovanni Tenorio

Libertino