Don Giovanni

La povera ragazza è pazza, amici miei

Cari amici, no! Non arrivò la statua del commendatore a farmi la ramanzina e a sollecitare il mio pentimento (pentirmi di che cosa?) per trascinarmi poi all’inferno, come vorrebbe la storiella che tutti ripetono a pappagallo, mentre mi stavo godendo un lauto banchetto allietato dalla più raffinata Tafelmusik. La faccenda è molto più prosaica: a bussare alla mia porta fu un lugubre ispettore che mi notificò una sostanziosa sanzione pecuniaria perché le musiche eseguite durante il festino erano udibili fin dalla strada, quindi l’esecuzione era pubblica, quindi dovevo pagarne i diritti. Venni poi a sapere che a fare la spia era stata la solita Donna Elvira, quella beghina  che, dopo essere stata abbandonata da me per le ben note ragioni cui ho già avuto modo di accennare, per ripicca si divertiva non solo a propalare fandonie sul mio conto a tutte le donzelle che incontrava (“non ti fidare o misera di quel ribaldo core!”), ma anche a denunciarmi presso tutti gli uffici pubblici per vere o presunte violazioni di imposte, tasse e gabelle varie. A chi mi chiedeva perché non le tirassi il collo, rispondevo, magnanimo: “La povera ragazza è pazza, amici miei!”
Ora c’è un’altra ragazza  cui tirerei volentieri il collo. E’ quella  che da qualche tempo nel Bel Paese ha preso le redini dell’Agenzia dei Gabellieri, cioè di quell’istituzione cui va riconosciuta la stessa dignità morale degli organismi che, nelle cosche mafiose, hanno il compito di provvedere esecutivamente all’estorsione di pizzi e tangenti attraverso violenze e minacce. Che dice questa ragazzona? Fa tutto un bel discorsetto edificante, chiedendo la collaborazione dei buoni cittadini per garantire la correttezza della pubblica amministrazione e l’equità nell’esazione delle imposte. Come? Spiate, buoni cittadini, spiate, anche rimanendo anonimi; vi renderete benefattori dell’umanità, impedirete ai malintenzionati di mettere le mani nelle vostre tasche (come se nell’ambito dell'”onorata società” a rubare non fossero gli estorsori al servizio delle cosche mafiose,  ma i poveretti che si rifiutano di pagare tangenti, rischiando di rimetterci la pelle). Se il vostro vicino evade, denunciatelo! Se il barista non rilascia scontrini fiscali, segnalatelo! Se il vostro idraulico ricorre a un po’ di lavoro nero per non dover chiudere bottega, mettetelo alla gogna!  E negli uffici pubblici, in primis all’Agenzia delle Gabelle, gli impiegati solerti non esitino a  denunciare, sia pure in incognito, i loro colleghi che vengono meno ai propri doveri. Forse sarà capitato a tutti di odiare, a scuola, non il primo della classe quando generosamente fingeva di non accorgersi del somarello che sbirciava sul suo foglio durante un compito in classe, ma il secchione che, volendo primeggiare, non si faceva scrupolo  di segnalare all’insegnante il vicino di banco furbastro: “Signor maestro, il Tenorio copia!”: senza comprendere, il poveretto, che in questo modo metteva in cattiva luce non solo se stesso, in quanto delatore, ma anche l’insegnante, il cui compito sarebbe stato quello di far buona guardia durante le prove scritte, e di individuare, durante la correzione dei lavori, le eventuali furbate, senza ricorrere a squallidi mezzucci. Allo stesso modo, il direttore d’un ufficio, pubblico o privato che sia, dev’essere in grado di individuare da sé eventuali dipendenti scansafatiche e disonesti. In una fabbrica sarà il caporeparto  a tener d’occhio gli operai. O vogliamo costruire un sistema tipo “grande fratello”, in cui ognuno è poliziotto degli altri e di sé, e ci si spia a vicenda, col bel risultato di vivere sotto il perpetuo timore d’una pugnalata alla schiena, magari da parte d’un creduto amico che ha qualche personale  motivo di ruggine contro di noi?  Ho l’impressione che l’elogio della delazione sia un’ideologia figlia della  legislazione premiale ( a favore de “pentitismo”), che dicono sia servita a sconfiggere i terroristi rossi, ma di certo ha causato un irreversibile imbarbarimento della civiltà giuridica. Un sistema penale che per punire i delinquenti ricorre ai delinquenti, diceva Cesare Beccaria si pone moralmente sullo stesso piano dei delinquenti. Sconti di pena a chi rivela i complici? Molto più dignitoso chi grida :”Io no che non mi pento!” rassegnandosi a scontare l’ergastolo. Ma per tornare più raso terra, riprendendo il filo del discorso: se io vedo una banda di ladri svaligiare una gioielleria, sarei un incallito egoista a non chiamare la polizia solo perché non è la mia proprietà ad essere danneggiata; ma se chiamo l’ausiliare della sosta a sanzionare un’auto in divieto che non dà fastidio a nessuno, sono un essere abietto. A che servono sette o otto polizie (il che significa, suppergiù, un birro ogni 200 persone, compresi vecchi decrepiti, bambini, disabili…), se poi neppure queste bastano, e ogni cittadino deve diventare a sua volta birro? Nell’antica Atene chi denunciava i contrabbandieri di fichi era detto sicofante: il termine passò a indicare in generale ogni delatore che agisse per fini moralmente deplorevoli. Era diventato, giustamente un insulto. Ora invece pare che il sicofante debba essere elevato all’onore  degli altari, come un santo da venerare a gloria del dio-Stato.  Per nominare il nuovo sicofante, credendo in questo modo di nobilitarlo, si è andati a prendere in prestito un’altra parolaccia inglese, come se il vocabolario della lingua che fu di Dante non fosse già infarcito di termini orrendi (fra gli ultimi, “spending rewiew” e “jobs act”): whistleblower .Se, come si diceva nel Medioevo, “nomina sunt consequentia rerum”, ovverossia i nomi contengono l’essenza dei loro referenti, basterebbe questo informe coacervo di grugniti a squalificare le operazioni immonde cui si vorrebbe conferire non si sa quale dignità morale. La povera ragazza è pazza, amici miei!

Giovanni Tenorio

Libertino