Don Giovanni

Confindustria connivente con lo Stato estorsore e la “falsa coscienza” giornalistica.

Cari amici, penso che se qualcuno vi dicesse che saper fare bene il proprio lavoro è una virtù degna di lode, sareste subito d’accordo senza nulla obiettare. In linea di massima sono d’accordo anch’io, ma qualche precisazione, se non proprio obiezione, credo si renda necessaria. Innanzitutto una: far bene il proprio lavoro non nobilita un’attività di per sé ignobile. Facciamo qualche esempio. Far bene la puttana nobilita la prostituzione? No, anche se io penso che non ci sia nulla di ignobile nel prostituirsi: non ricorrerei mai a un siffatto servizio perché adoro l’erotismo e non la carnalità bruta, ma c’è chi può pensarla diversamente e regolare le proprie scelte di conseguenza. Affittare l’utero diventa attività nobile se lo si fa con ogni cura e diligenza? Ancora no, benché anche in questo caso io non veda nulla di sconveniente in tale pratica, quando sia regolata da un contratto liberamente sottoscritto. Fossi una donna, non lo farei, volessi figli (Dio me ne scampi e liberi!) e fossi impotente, li adotterei. Far bene il mestiere del furto con scasso nobilita il furto con scasso? No e poi no! Questo sì è un mestiere ignobile; e sicuramente sono più apprezzabili i ladruncoli sfigati come gli immortali “soliti ignoti” del grande Monicelli che gli scassinatori di professione, adusi a tutte le tecniche più raffinate, con il supporto delle più moderne tecnologie.
E se uno sa estorcere bene, l’estorsione diventa virtuosa? Qui il discorso si fa complesso. Gli esattori del fisco sono estorsori, sia pur per conto del loro committente, lo Stato ladro. Anche Cicerone, che pur era un difensore delle istituzioni, nel “De officiis” annovera fra le attività più vituperevoli l’esazione dei “portoria”, ovvero dei dazi. In tutto l’Impero Romano erano esecrati i pubblicani, esattori privati che, dietro contratto d’appalto, raccoglievano le imposte dirette per conto dello Stato, trattenendo per sé una percentuale piuttosto succulenta. Facevano bene, anzi benissimo il loro lavoro. Odiatissimi in Palestina, neppure uno che passava per estremista come Giovanni Battista, vivendo da hippy nel deserto e cibandosi di cavallette, ebbe il coraggio di condannarli:”Non chiedete più del dovuto” si limitò a raccomandare. Estremista? A me pare un moderato, come quelli che oggi dicono: “Se la pressione fiscale si mantiene entro i limiti del 30%, va benone: i bravi cittadini paghino, e tutto andrà per il meglio nel migliore dei mondi possibili”. Gesù Cristo, che era ancora più estremista, arrivò a farsi invitare a pranzo da un pubblicano, un certo Zaccheo, il quale per scusarsi delle ruberie confessò di far molta beneficenza, Gesù se ne compiacque, non lo condannò. Ma mi chiedo: uno che fa la carità con il maltolto è degno di lode? Merita l’assoluzione? E perché invece il giovane ricco se non dà tutto ai poveri non entra nel regno dei cieli, pur non avendo rubato nulla? Bel dilemma! Il Figlio di Dio non può essere nel torto. La mia pochezza teologica non mi consente di chiarire l’enigma. Lo giro a monsignor Gianfranco Ravasi, se avrà la compiacenza di farsene carico.
Roberto Napoletano è un buon cattolico. Forse è questo il motivo per cui, nell’ultimo articolo della sua simpatica rubrica pubblicata settimanalmente  nella finestra di prima pagina sull’inserto domenicale del “Sole 24 ore”, tesse l’elogio, anzi pronuncia il panegirico della signora Rossella Orlandi, che Renzi ha posto a capo dell’ Agenzia delle Entrate, prendendola dalle scuderie dell’ ex-ministro delle finanze Vincenzo Visco: professore illustre il cui cognome, differenziandosi da “fisco” solo per lenizione della fricativa labiale, suona come un destino funesto per il popolo dei tartassati (un personaggio invero antipatico come e forse più di lui sentenziò: “Visco alle finanze è come Dracula all’Avis”). Ma che donna meravigliosa, questa Orlandi! Quale lavoratrice indefessa! Quanto bene fa allo Stato, e quindi a tutti i bravi italiani, visto che lo Stato sono loro, i cittadini! Quanta evasione fiscale ha saputo recuperare! E che gente proba i suoi dipendenti! Uno di loro ha fatto avanti e indietro col treno, pagandoselo di tasca propria, rinunciando al Freccia Rossa perché non poteva permetterselo, per incastrare quei biechi evasori fiscali di Google, che tanti soldini sottraevano al fisco, condannando gli onesti alla povertà (infatti, com’è risaputo, la pressione fiscale è alta perché è alta l’evasione; se pagassero tutti si pagherebbe meno e l’economia italica balzerebbe ai primi posti delle classifiche mondiali, con un tasso di sviluppo da Paese di Bengodi). E quale successone ha avuto! Pensate, quell’eroico servitore dello Stato guadagna soltanto 1600 euro al mese! Questa è l’Italia che funziona, quella che dovrebbe render fieri gli italici del privilegio di cui Dio li ha resi partecipi.  Davanti a chi in Europa li calunnia dovrebbero sbandierare queste eccellenze, marciare con il petto in fuori cantando a voce spiegata l’Inno di Mameli. Peccato che invece siano proprio le autorità italiche a screditare l’Agenzia, accusando i  suoi vertici di aver promosso alcuni quadri a dirigenti senza regolare concorso. Quale villania! L’Agenzia non dovrebbe regolarsi secondo criteri privatistici? E allora perché dovrebbe sottoporsi a tante regole burocratiche? Ma lasciatela lavorare in pace, e siatene degni, anzi orgogliosi.
A questo punto uno si chiede: come mai la Confindustria, attraverso il suo giornale, non tralascia occasione di incensare lo Stato in ciò che ha di più ributtante, una pressione fiscale schiavistica, che tarpa le ali allo sviluppo, soffoca ogni barlume di ripresa economica,  scoraggia quel gusto dell’intrapresa che solo può produrre ricchezza per tutti e dovrebbe essere la bandiera di un’associazione che difende, o dice di difendere, gli interessi dell’imprenditoria privata? Non solo: a corroborare il suo atteggiamento prono alle ragioni dell’ingordigia fiscale chiama spesso a supporto, sempre sulle pagine del suo quotidiano, monsignor Bruno Forte, che con Ravasi è un po’ il cappellano della bella consorteria. Eh, cari amici, la grande industria italica ha un forte debito di riconoscenza con lo Stato, fin dai tempi dell’Unità. Se la Destra storica era, per usare un concetto marxiano,  il comitato d’affari della borghesia, la Sinistra ne fu la grande ruffiana, facendosi pronuba di quel patto scellerato che unì la grande industria manifatturiera del Nord e gli agrari latifondisti del Sud (produttori di grano) all’insegna di una tariffa doganale che da un lato promosse lo sviluppo del Settentrione ma dall’altro danneggiò le colture più pregiate del Meridione, come quella della vite e dell’olivo, escludendole – per effetto delle ritorsioni, che innescarono una guerra doganale- dagli sbocchi dei mercati esteri. Anche la classe operaia ne risentì, a causa del rincaro della farina, quindi del pane, su cui per anni aveva già dovuto pagare l’odiosa tassa del macinato. Tutta una cultura autenticamente liberale, con in testa il grande Francesco Ferrara, insorse, ma rimase relegata nel dibattito accademico, senza che i governanti la degnassero d’attenzione. D’altra parte, era quella l’aria che spirava in tutta Europa, sul modello della Germania bismarckiana, seguace delle teorie filoprotezionistiche di Friedrich List. Il protezionismo trionfò anche col “liberale” Giolitti, il “ministro della malavita” che blandiva il movimento operaio nel Nord ma randellava senza pietà le proteste contadine del Sud. Ancora una volta si levarono contro tale politica liberisti di valore come Einaudi e Albertini, dalle colonne del “Corriere della Sera”, a quei tempi non ancora asservito al potere. La Prima Guerra Mondiale fu una pacchia per la grande industria, grazie alle forniture belliche. Il Fascismo all’inizio, quando aveva ancora connotazioni anticapitalistiche, seminò un po’ di panico; quando si tramutò, per dirla con Domenico Settembrini, in una “controrivoluzione imperfetta” che salvava l’imprenditoria privata irreggimentandola in un dirigismo corporativo non molto dissimile da quel che avveniva altrove per effetto della crisi del ’29 (si pensi alla Germania di Hitler o all’America del “New Deal”), Stato e industriali tornarono ad essere amiconi. La tresca è continuata nel secondo dopoguerra. Quante volte le i grandi imprese in difficoltà sono state salvate dal denaro pubblico? Ricordate i dipendenti in esubero dell’Olivetti assunti come impiegati pubblici? I ferrivecchi elettronici venduti alle scuole, dove sono stati relegati ad arrugginire negli scantinati? Lasciamo perdere le vicende della Fiat, perché bisognerebbe riempire e pagine. Ditemi voi, come può la Confindustria, con questo bel curriculum di connivenze con lo Stato alle spalle, non essere devotamente statalista e pro-fisco, visto che dallo Stato la grande industria privata continua a ricevere incentivi e benefici? A pro dell’occupazione, naturalmente, per il “bene comune” di cui cianciano papi e cardinali, i Bergogli, i Forti e i Ravasi.
Eppure Roberto Napoletano, nonostante tutto, continua ad essermi simpatico. Non credo sia in malafede E’ vittima di quella che Marx, nell'”Ideologia tedesca” del 1845-46 chiamava “falsa coscienza”, ovverossia un pensiero che, in buona fede, giustifica l’assetto socio-politico esistente sulla base di principi fallaci, senza rendersi conto delle dinamiche di potere, in ultima analisi economiche, che ne costituiscono la vera ragione. Al tempo di Marx  la contrapposizione di classe era tra capitalisti e proletari, oggi tra parassiti statali e ceto produttivo. Purtroppo la grande industria è schierata con i parassiti, perché ne ricava benefici. Media e piccola imprenditoria, artigianato, partite iva, lavoratori dipendenti sono i  veri sfruttati di oggi. Fu un’illusione quella del segretario del PLI Giovanni Malagodi, che a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso pensò di costruire un'”alternativa liberale” all’incipiente deriva cattocomunista grazie all’appoggio di Assolombarda prima e di Confindustria poi. Gli industriali per un po’ lo finanziarono; quando videro che con i governi di centro-sinistra a guida democristiana si allentava il sovietismo del PSI e si delineava una nuova “controrivoluzione imperfetta”, gli tagliarono i fondi e si schierarono in massa dall’altra parte. Proprio come avevano fatto col Fascismo. Magari sbandierando il credo antifascista nel nome di una “politica dei redditi”, cara a La Malfa, che di fatto era volta a ingabbiare stipendi e salari bloccando la libera dialettica tra capitale e lavoro. Come nel famigerato corporativismo mussoliniano. Già, come diceva Flaiano, in Italia ci sono due tipi di fascisti: i fascisti e gli antifascisti.
Sarà molto dura, cari amici, combattere questa coriacea falsa coscienza. Dicono che l’Agenzia delle Entrate organizzi corsi nelle scuole pubbliche per insegnare agli alunni, futuri contribuenti, che pagare le tasse è cosa buona e giusta. Ecco come si corrobora la falsa coscienza. Ma è in agguato quella che i filosofi chiamano “eterogenesi dei fini”. Potrebbe capitare come un tempo  nelle scuole dei Gesuiti: alcuni ne uscivano bigotti, ma molti diventavano atei coi fiocchi. Speriamo che dalla scuola pubblica escano fior di evasori.

Giovanni Tenorio

Libertino