Cari amici, forse qualcuno storcerà il naso, ma io continuo a credere che in Italia la debolezza del pensiero liberale sia dovuta al fatto che liberali furono quelli che l’italia la fecero (male).
Fatta l’Italia, bisognava governarla. La classe dei padri della patria divenne classe di governo. Il liberalismo, nato in ambiente anglosassone come opposizione al potere, divenne invece, nell’italo suolo, tecnica di gestione del potere. Nella dialettica parlamentare, finito il periodo della Destra Storica con la “rivoluzione” del 1976 che portava al governo la Sinistra (proprio quando Marco Minghetti poteva esibire come trofeo dei governi “lacrime e sangue” della Destra il pareggio di bilancio finalmente raggiunto) nasceva ben presto, con Depretis, la prima idea del “Partito della Nazione”. Prendeva piede, in poche parole, la pratica del “Trasformismo”, che stemperava i confini fra governo e opposizione, attraverso sempre nuove maggioranze su singoli provvedimenti, e continue trasmigrazioni dei rappresentanti del popolo da un lato all’altro dello schieramento parlamentare. Era già, a suo modo, la messa in atto del principio secondo cui, finite le contrapposizioni ideologiche, finisce in un certo senso la Storia, e quindi è inevitabile una convergenza al centro, su posizioni largamente condivisibili da angolazioni politiche formalmente contrapposte. Il Trasformismo fu la degenerazione d’una politica sana (sempre rimanendo negli schemi dell’ideologia liberaldemocratica, si intende, che non è quella libertaria qui sostenuta). Ha un bel dire Benedetto Croce* che anche fuori d’Italia si faceva così; che se la contrapposizione ideologica può avere un valore ideale, nella concretezza dell’azione politica le convergenze sono necessarie e salutari. Certamente, davanti a grandi catastrofi, o in occasione di conflitti armati, o a scelte cruciali di politica estera, può essere opportuno che maggioranza e opposizioni facciano causa comune, votando compatte. Però poi bisogna nuovamente dividersi; perché se tutti governano, chi criticherà il governo? Mi è sempre piaciuto che nel Regno Unito l’opposizione si chiami “Opposizione di Sua Maestà”. Può farci sorridere, e invece la definizione contiene una grande verità. In parlamento, nella politica ordinaria, ci si può scontrare duramente, ma sui fondamenti costituzionali si deve essere d’accordo, se si vuol sedere sugli scranni delle assemblee rappresentative. Altrimenti si combatte fuori del Parlamento, assumendosi il pericolo di ricevere schioppettate o di finire nelle patrie galere.
Il “Partito della Nazione” così costituito si illude spesso di poter schiacciare le frange extra-istituzionali relegandole ai margini della rappresentanza parlamentare o affrontandole nelle piazze con metodi polizieschi, con l’aiuto dell’esercito, se necessario. Formatosi in Italia un regime liberale, altre forze si sviluppavano di fuori dal suo schema, minacciando di mettere in forse il compromesso raggiunto fra Destra e Sinistra sia attraverso manifestazioni di dissenso sulla stampa, nelle associazioni, nella dialettica sindacale e nelle pubbliche manifestazioni antigovernative, sia attraverso la via istituzionale della rappresentanza democratica. I “liberali” di governo cominciarono ad andare nel panico. Le prime proteste operaie e contadine organizzate furono duramente represse. Crispi schiacciò i “Fasci Siciliani” in una repressione sanguinosa. Alla fine del secolo l’insurrezione milanese domata dalle cannonate di Bava Beccaris segnava la fine di un’epoca. Di un’epoca, si badi bene, non della Storia, che invece, come sempre, procedeva per un’altra strada. C’erano due modi per salvare le istituzioni nate dalla soluzione sabaudo-moderata delle lotte risorgimentali: o “tornare allo Statuto”, come proponeva Sonnino, cioè come alle origini rendere il governo responsabile davanti al Re, non davanti alle Camere, rafforzandone così i poteri, e nel contempo introdurre una serie di provvidenze a favore dei ceti più deboli per minare l’attrattiva del movimento socialista, secondo il modello tedesco di Bismarck (che fu, non dimentichiamolo, il vero inventore del welfare state, con buona pace di Beveridge). L’altro, più intelligente perché andava nel senso della continuità, con una verniciatura progressista entro un’ideologia di fatto conservatrice, era quello che poi Giolitti avrebbe adottato: un nuovo trasformismo, volto non più ad allargare la compagine governativa dei notabili “liberali”, ma piuttosto ad assorbire nell’ambito istituzionale e, se possibile, governativo le forze fino a quel momento rimaste in conflitto con l’ideologia dello Stato liberal-democratico: da un lato i Socialisti, dall’altro i Cattolici. Era un trasformismo riveduto e corretto, messo in atto con qualche successo. I Socialisti turatiani – pur non accettando portafogli ministeriali – cominciarono a guardare con qualche favore alla politica governativa (gli scioperi non venivano più repressi, almeno nel Nord in via di rapida industrializzazione; nel Sud – “Affrica!” l’aveva battezzato a suo tempo Farini – si continuava a ricorrere spesso e volentieri a schioppettate e manganellate). I Nazionalisti – altra forza con nette connotazioni extraparlamentari – ebbero il loro contentino con la sciagurata Guerra di Libia. Finalmente, col Patto Gentiloni si compì il grande passo per conquistare alle istituzioni (e al governo, che così diventava più che mai espressione del “Partito della Nazione”) i più potenti oppositori del regime: i Cattolici, ancora formalmente vincolati al non expedit pontificio, che fino a quel momento precludeva loro la partecipazione attiva alla politica nazionale. La Guerra Mondiale scompigliava ogni cosa. Quando, nel tumultuoso dopoguerra, Giolitti, tornato al governo, tentò con i suoi soliti metodi di ammorbidire e “costituzionalizzare” il Fascismo, sappiamo come andò. E il Fascismo, conquistato il potere, divenne a suo modo “Partito della Nazione”, giungendo a ottenere un consenso popolare che nessun governo precedente aveva mai goduto. Per i dissidenti, galera o confino. Giovanni Gentile vedeva così, nella sua ottica filosofica, pienamente attuato il programma risorgimentale. Si consolidava, sotto l’imperio del partito unico, la nazione italiana, nella quale la libertà liberale degli individui, residuo del passato, finalmente si annullava inverandosi nella libertà trascendente dello Stato Etico. Nel Secondo Dopoguerra fu la Democrazia Cristiana a riprendere, a suo modo, il trasformismo giolittiano, attraverso le politiche centriste in coalizione con i cosiddetti partiti laici. C’era però il grande scoglio del Partito Comunista, che pur avendo dato un grande contributo al nuovo disegno costituzionale repubblicano, continuava a configurarsi come una forza anti-sistema. La politica di centro-sinistra caldeggiata da Fanfani e inaugurata da Moro intendeva sottrarre i Socialisti al richiamo bolscevico e, attraverso una serie di riforme favorevoli alle classi subalterne, erodere i consensi al Partito Comunista, così da poter formare un nuovo “Partito della Nazione” che avesse la DC come suo fulcro. Ma il disegno andò a vuoto. Il Partito Comunista si rafforzava sempre più, finché, da una parte e dall’altra, si cominciò a vagheggiare il famoso “Compromesso Storico”, l’incontro Cattolici-Comunisti nel nome di un governo nazionale progressista (la caduta di Salvador Allende in Cile, nel 1973, aveva fatto capire ai Comunisti italici che senza un larghissimo consenso, possibile soltanto con una politica consociativa, era pericoloso per loro arrivare al potere). Per fortuna non se ne fece nulla. Questa volta fu il socialista Craxi, dopo la buia stagione terroristica delle Brigate Rosse, a scompigliare i giochi, guidando coalizioni governative che finalmente vedevano un “laico” come Presidente del Consiglio (ma il primo a rompere la consuetudine era stato il repubblicano Spadolini). Il terremoto di “Tangentopoli”, giunto in un momento in cui nel panorama mondiale accadevano fatti di portata epocale (crollo dell’URSS, unificazione della Germania) sconvolse del tutto gli equilibri. Introdotto un sistema elettorale maggioritario corretto, sembrava giunto il momento di costituire anche in Italia una prassi di alternanza al governo fra destra e sinistra. Prima ci arrivò Berlusconi, col suo caravanserraglio, più avanti, dopo molte peripezie, fu la volta di Prodi col suo circo equestre, poi… è Storia recente, inutile che ve la ricordi.
Adesso, arrivato il Renzino, la Tragedia diventa Farsa. E’ stato lui a rispolverare il “Partito della Nazione”. Il suo piano era una vera furbata: proporre, con il consenso di una destra ormai ridotta a un’accozzaglia di straccioni, una riforma elettorale che gli garantisse un’ampia maggioranza parlamentare, mettendo ai margini i brandelli della sinistra-sinistra e polverizzando le forze di destra con l’assorbirne quanto più possibile nelle proprie file; introdurre una riforma del Senato che lo riducesse a una risibile quanto inutile caricatura del Bundesrat tedesco. La ripresa economica, data come imminente e solida, avrebbe aperto la via all’attuazione del suo disegno, accattivandogli il consenso popolare. Era così sicuro di sé, da arrivare a legare strettamente il consenso del popolo, attraverso il referendum sulla riforma del Senato, alla propria permanenza al governo. Peccato che il Renzino non è Giolitti. Il suo trasformismo è bacato. Alleandosi con le sinistre, interne ed esterne al suo partito, per l’elezione del Presidente della Repubblica, in spregio agli accordi “del Nazareno” con Berlusconi, si è alienato l’appoggio del Cavaliere, e di gran parte della sua armata Brancaleone, alle riforme costituzionali. Intanto l’economia è andata, e continua ad andare, di male in peggio. I sudditi del Bel Paese sono sempre più inferociti contro di lui. Specialmente al Sud non lo possono vedere (i fischi che quest’estate si è beccato a Taranto dagli operai dell’Ilva gli devono esser sonati alle orecchie come un triste presagio). Adesso dice, cacandosi sotto, che se anche fosse sconfitto al referendum non si dimetterà.
Eh no, caro signorino, ti dimetterai, e come! E con te finiranno la tua riforma costituzionale e il tuo sogno del “Partito della Nazione” (che in ogni caso sarebbe messo in forse dal crescente rafforzamento, impensabile fino a qualche tempo fa, del movimento di Grillo, a dispetto degli insuccessi di Virginia Raggi a Roma).
Dicono che se passa il NO al referendum l’Italia andrà a catafascio. Ci andrebbe in ogni caso. E allora, muoia Sansone con tutti i Filistei.
*BENEDETTO CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cap. I “Polemiche politiche in Italia dopo il 1870 e realtà storica”, Bari 1928
Analisi storica molto precisa. Mi permetto un dissenso semantico relativo all’inizio dell’articolo: liberali non “furono” quelli che l’Italia la fecero; liberali si autoproclamarono, abusivamente, coloro che unificarono la penisola con la forza.
Perfettamente d’accordo: l’appellativo “liberali”, in riferimento ai cosiddetti Padri della Patria , andrebbe sempre messo tra virgolette. D’altra parte, nell’uso storiografico, è un termine ormai invalso, più come indicazione epocale che come giudizio di valore. “Liberale” è ormai diventato termine ambiguo, con mille significati, quindi con nessun significato. Facilissimo confonderlo con l’anglo-americano liberal,che vuol dire tutt’altra cosa, indicando piuttosto un’ideologia socialdemocratica, talora più a sinistra dello stesso laburismo inglese. Sorrido pensando a una polemica -ormai sembra preistoria- tra Ugo la Malfa e Giovanni Malagodi. Il Partito Repubblicano, non ricordo più in occasione di quale tornata elettorale ( in ogni caso, si era negli anni Sessanta del secolo scorso), nei suoi volantini e manifesti propagandistici scriveva che chi voleva un liberalismo moderno doveva votare Edera. Malagodi si stizzì:”Piaccia o non piaccia, il Liberalismo in Italia si chiama Partito Liberale Italiano, Via Frattina 89, Roma”. Patetico. Qualcuno, proprio nel PLI, parecchi anni prima, aveva confessato che nelle file di quel partito c’erano molti notabili “più conservatori che liberali, alcuni per niente liberali”. Era Luigi Barzini jr. La Malfa liberale moderno? Se Keines era liberale (“Am I a liberal?” è il titolo di un suo articolo, nel quale intendeva distinguersi tanto dal “partito dei duri a morire” , i conservatori accaniti, quanto dal “partito della catastrofe”, i laburisti estremisti) sicuramente La Malfa, strenuo keynesiano, aveva tutte le ragioni di fregiarsi del titolo. Il figlio Giorgio ha seguito le orme del padre, al punto che qualche tempo fa ha pubblicato una simpatetica biografia di Keynes. Vorrei far mia una dichiarazione di Bertrando Spaventa (cito a memoria): “E’ una razza di liberali che aborro, perché non hanno nulla per meritarsi questo nome”. Molto bene. Peccato che anche Spaventa di liberale avesse pochino, se è vero che, da buon hegeliano, credeva in qualcosa di simile allo Stato Etico: tant’è che Giovanni Gentile, l’ideologo del Fascismo, vide in lui un predecessore. Con questi liberali,stiamo freschi davvero!!!