La grammatica del bullo
Si racconta che Arrigo Benedetti, lo scrittore e giornalista che fondò periodici di successo e di alta qualità come “Oggi”, “L’Europeo” e “L’Espresso”, fosse solito, da direttore, tirare le orecchie ai suoi collaboratori quando, nei loro articoli, incorrevano in qualche svarione grammaticale o usavano qualche termine stilisticamente inappropriato. Ad esempio, non poteva tollerare che si usasse il verbo “disattendere”, di cui invece tutti ora fanno abuso, per il suo inopportuno sapore burocratico. A ripensarci oggi, sembrano passati non decenni, ma secoli. La sciatteria domina. Gli anglismi proliferano. Quasi tutti usano il termine “fila”, che è plurale di “filo”, nel senso di “file”, che è plurale di “fila”. Capita allora di leggere: “Bisogna serrare le fila”. Che sarebbe come dire “stringere i fili della maglietta”, o qualcosa di simile: un mostro che un tempo avrebbe provocato la bocciatura di un candidato all’esame di maturità. Quando si sapeva parlare in buon italiano si diceva “Uomini e no” (come il titolo del famoso romanzo di Vittorini), “Scrivere e no” come intitola un suo bellissimo saggio il paleografo Armando Petrucci, scomparso in questi giorni tra l’indifferenza dei più, di cui Luciano Canfora ha pubblicato, sul “Corriere della sera” un commosso necrologio. Oggi tutti direbbero “Uomini e non”, “Scrivere e non”. Una vera cacofonia. Stringe il cuore che un illustre studioso, tra l’altro amico dei libertari e a me particolarmente simpatico, abbia intitolato un suo libro “Liberali e non”. Verrebbe voglia di replicare con uno “Sgrammaticati e no”. Ma questo è ancora il meno. Sul “Giornale” che fu di Montanelli qualche settimana fa è comparso un articolo di fondo del direttore Alessandro Sallusti il cui titolo suonava così: “Quei due Homus Grillino a Porta a Porta”. L’articolo è apprezzabile e ben scritto, anche se il pensiero dell’editorialista può non essere condiviso. Il titolo però è peggio di un mostro. Il grande linguista Aldo Gabrielli in casi come questi parlava di “caramogi”. “Homus Grillino”? L’espressione è coniata sulla falsariga di “Homo sapiens”. “Homo”, non “Homus”. D’accordo, i titoli sono redazionali, la responsabilità non è dei giornalisti che li subiscono. Ma possibile che nessuno si sia accorto del tremendo svarione? Che nessun redattore abbia tirato le orecchie al collega? Che il direttore stesso abbia tollerato un titolo del genere per un suo articolo? E’ vero che il latino non lo conosce più nessuno: anche i preti, a cominciare dal loro capo si limitano a biascicarlo. Ma anche le persone più sprovvedute dicono “Homo sapiens”, non “Homus sapiens”.
Siamo caduti ben in basso. Questo è il frutto della “Buona Scuola”, che Renzi non ha inventato ma si è limitato ad assecondare, ed è giunta al capolinea con la ministra ancora in carica, la signora che sembra un mascherone di carnevale o qualcosa di peggio. L’ultima bella trovata è quella di prescrivere anche per i maestri elementari la laurea, non solo per le prossime assunzioni, ma, retroattivamente, anche per chi in passato è stato regolarmente assunto in pianta stabile dopo aver conseguito il diploma dell’Istituto Magistrale e aver vinto un concorso. La laurea ai maestri? A che pro? Che cosa può aggiungere l’istruzione universitaria a un buon maestro che abbia studiato con profitto in un istituto superiore deputato alla formazione degli insegnanti elementari? Un po’ più di pedagogia teorica, qualche ulteriore infarinatura di filosofia? I maestri elementari di un tempo non avrebbero lasciato passare “fila” per “file”, perché anche il più corrivo di loro sapeva bene che “fila” in latino è il plurale di “filum”, che significa “filo”, mentre le file, nel senso di “schiere”, si dicono “agmina”. Ma allora alle Magistrali il latino si studiava bene. Oggi si studia male anche all’università.
Oggi sembra che il problema della scuola sia il bullismo. Non sarò certo io a dire che va preso alla leggera. Al contrario, va stroncato, nel modo più severo, non con qualche giorno di sospensione (per non parlare della ridicolaggine della “sospensione con obbligo di frequenza”: un altro cerchio quadrato, come certi concetti giuridici che già abbiamo messo alla berlina). Il bullismo purtroppo è sempre esistito. Non solo a scuola. Nell’esercito, quando la leva era obbligatoria, si chiamava nonnismo, e i superiori gerarchici della bassa truppa, dai caporali ai gradi più alti, spesso lo vedevano di buon occhio, considerandolo una sorta di rito iniziatico atto a rafforzare il carattere delle matricole. I più deboli venivano beffeggiati e sottoposti alle peggiori angherie. Ricordate il film di Kubrik “Full metal jacket”? Quali umiliazioni subisce il povero soldato Leonard Lawrence, detto Palla di Lardo, ad opera del sergente Hartman, fra le risate dei commilitoni! Almeno fino al fatidico Sessantotto anche le matricole universitarie subivano angherie da parte degli studenti più anziani. E anche in quel caso le autorità accademiche chiudevano un occhio o anche due, quando addirittura non se ne compiacevano. Nelle scuole di ordine inferiore era diverso: gli atti di bullismo, se scoperti, erano puniti con una certa severità.
Poi arrivò il Sessantotto. Il bullismo universitario si estinse (e fu un bene): le matricole venivano reclutate dagli anziani per la lotta contro la bieca società capitalistica e il rinnovamento radicale della società, a cominciare dall’ordinamento universitario. Da quelle esperienze germinarono le nuove generazioni di docenti: “antirepressivi”,magari nel nome di dittatori come Mao o Castro; ben contenti di farsi dare del tu dai loro studenti, in uno spirito cameratesco che voleva essere democratico ed era soltanto stupido. Il livello della preparazione cominciò ad abbassarsi. In un istituto magistrale di una città del Nord un vecchio professore di filosofia, uso a trascorrere gran parte delle sue ore di lezione leggendo il giornale, ma venerato come un’icona perché era stato antifascista militante e aveva partecipato alla Resistenza, arrivò a giustificare la promozione di alunni somari (che poi probabilmente sarebbero andati a insegnare nelle scuole elementari) citando (a sproposito) don Milani e la Scuola di Barbiana. In un clima del genere chi si comportava male, magari commettendo angherie ai danni dei compagni più deboli, veniva punito blandamente. Qualche psicologo arrivava addirittura a giustificare ltali malefatte. Se poi il bullo apparteneva a una famiglia disagiata, il gioco era fatto. Uno psicologo assurto in seguito al rango di docente universitario disse una volta, in un incontro con i docenti di una scuola media inferiore, che anche avere il cesso in fondo al ballatoio, invece di un bel cesso profumato e piastrellato, può essere motivo di risentimento, che scatena l’ira dei poveri contro i privilegiati.
Il bullismo di oggi ha un cuore antico, come vedete. La possibilità di esaltare le proprie gesta attraverso i cosiddetti “social networks” è come benzina sul fuoco. E spesso i bulli i oggi appartengono proprio ai ceti privilegiati, altro che cesso sul ballatoio. I loro genitori, che spesso sono nipotini degli eroi del Sessantotto, non solo non li rimproverano, ma in molti casi li giustificano. Talora, imitando le gesta dei loro pargoli, arrivano a prendere a pugni gli insegnanti.
Come dicevo, però, a mio parere il problema più grave non è questo. Se le punizioni torneranno ad essere severe; se qualche bullo si sporcherà anche la fedina penale, la scuola tornerà ad essere più tranquilla, e anche gli alunni più riottosi, nonché i loro genitori, si daranno una calmata. Il problema veramente grave è lo scadimento generale dell’insegnamento, dalle elementari all’università. In un mondo che diventa sempre più complesso, dove i paradigmi scientifici e tecnologici mutano radicalmente nel giro di pochi anni, gli studi dovrebbero diventare più severi. Invece diventano sempre più facili. Tutti devono arrivare all’università. Non ho capito perché. Capisco invece perché, con un obiettivo del genere, i programmi universitari diventano sempre più all’acqua di rose. Todos caballeros, come si racconta che abbia detto (ma forse è una leggenda) l’imperatore Carlo V. E’ la logica di quel vecchio professore antifascista che citava a sproposito la Scuola di Barbiana per promuovere i somari.
Uno dei libri più belli che io abbia mai letto è “La rivoluzione dimenticata” di Lucio Russo. E’ un saggio scritto divinamente da un professore di fisica che possiede anche una profonda cultura umanistica. Lì si dimostra con dovizia di dati che, dopo la meravigliosa fioritura scientifica e tecnologica dell’età ellenistica, qualcosa si inceppò nella trasmissione del sapere: la scuola non fu più in grado di preparare le nuove generazioni a mantenere e migliorare il livello di sviluppo fino a quel momento raggiunto. Il punto più basso fu toccato nei cosiddetti “secoli bui” dell’Alto Medioevo; dopo il Mille la situazione cominciò a migliorare, ma solo nel pieno Rinascimento si riuscì a recuperare del tutto quel che si era smarrito. Copernico con il suo eliocentrismo non scoprì nulla di nuovo: ci era già arrivato Aristarco di Samo 1700 anni prima.
Io mi sbellico dalle risa quando i futurologi (vil razza dannata) paventano nel tempo a venire una società in cui le macchine”intelligenti” soggiogheranno gli esseri umani che le hanno inventate, riducendoli in schiavitù. Le macchine non sono intelligenti, sono cretini che fanno calcoli a gran velocità, come qualcuno ha detto. Gli algoritmi che vanno oggi tanto di moda sono frutto della mente umana.
Bellissimo il film di Kubrik (ancora lui) “2001 Odissea nello spazio”, dove il computer HAL si ribella agli astronauti di cui dovrebbe essere al sevizio. Il 2001 è passato da un pezzo e non s’è ancora visto niente di simile. Credo che non si vedrà mai. Il vero pericolo, per le generazioni future, è quello di ripetere l’esperienza che travolse la civiltà ellenistica più di duemila anni fa. Nel Medioevo gli acquedotti romani crollavano e nessuno sapeva ripararli. Nella Roma imperiale si sapeva costruire una cupola come quella del Pantheon, con un “occhio” nel centro aperto verso il cielo. Nel Medioevo in Spagna nessuno sapeva voltare la cupola della Cattedrale di Santa Maria alla Seu d’Urgell. Si dovette chiamare, dall’Italia, un certo Raimundus Lombardus, uno dei “magistri cumacini” che avevano conservato tecniche architettoniche e ingegneristiche di cui gli antichi romani erano stati maestri.
Quando nessuno più saprà riparare le “macchine intelligenti” perché la scuola avrà sfornato soltanto somari, a quale Raimundus Lombardus ci rivolgeremo?
Bellissimo articolo, nulla da aggiungere a parte che se si dicesse “serrare le file” molti leggerebbero “serrare le fail”.
o meglio: “scrivesse” anzichè “dicesse”.
Grazie!