“La feccia, quando arriva al potere, si chiama popolo”
Napoleone Bonaparte non è certamente fra i personaggi storici che mi sono più simpatici. Odiando la guerra, non posso certo amare i generali, pur riconoscendone, quando è il caso, l’intelligenza e il coraggio, ma anche i delinquenti sono spesso intelligenti e coraggiosi. Se la sua fu vera gloria lo dicano gli storici. I milanesi finirono con l’odiarlo, facendo fare una brutta fine al suo ministro Prina, che li tartassava di imposte per finanziare le imprese del dittatore ( fu un delitto orrendo, sia ben chiaro), ed esultarono quando le truppe francesi lasciarono definitivamente la Lombardia (Carlo Porta scriverà: “Paracar che scappee de Lombardia/ se ve dan quaj moment de vardà indree/ dee on’oggiada, e fee a ment con che legrìa/ se festeggia so voster sant Michee” *). Devo riconoscere però che in qualche caso ha espresso considerazioni condivisibili. Per esempio, questa: i preti predicano un regno che non è di questo mondo, ma se possono allungano le mani per arraffare i beni di quaggiù. Delle donne non mi pare avesse grande considerazione, il che va a suo demerito.
Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un suo detto che non conoscevo (mi sono vergognato della mia ignoranza): “La feccia quando arriva al potere si chiama popolo”. Non chiedetemi quando e dove l’ha detto o scritto. Ho trovato la citazione in un vecchio, prezioso libro, che posseggo da decenni ma solo ora mi sono deciso a leggere, la biografia critica di Luigi Cherubini, sommo e misconosciuto musicista, dovuta alla penna del rimpianto Giulio Confalonieri, finissimo scrittore oltre che musicologo insigne. Molto ben detto, quasi quasi Napoleone mi diventa simpatico: “La feccia quando arriva al potere si chiama popolo”. E’ quello che vediamo in Italia in questi tempi grami.
Non è forse feccia l’attuale governo della Repubblica? I ministri si dividono in oche (con una sola eccezione) da una parte e scimuniti (anche qui non proprio tutti, ma quasi) dall’altra. Il presidente del consiglio è un Arlecchino servitore di due padroni, che solo ultimamente ha acquisito un po’ di prestigio (parola grossa! Diciamo piuttosto dignità) sfoderando le sue doti di leguleio nel confronto con le autorità europee sulla questione della legge di stabilità. I due vice sono uno peggio dell’altro: il terroncello non sa governare neppure i congiuntivi, il leghista che ce l’ha duro non perde occasione per pronunciare smargiassate e mettersi in maschera, vestendosi ora da poliziotto, ora da pompiere, ora da pirla, con quelle sue orribili felpe (e per non essere da meno di lui il suo collega ministro della giustizia, per accogliere Cesare Battisti finalmente estradato in italia, si veste da guardia carceraria per una farsa indegna, che-guarda caso- piace soltanto al forcaiolo Piercamillo Davigo) ). Eccolo il governo del popolo, che ha dichiarato di aver sconfitto la povertà. Non s’era mai visto prima uno stuolo di ministri affacciarsi al balcone di Palazzo Chigi per tripudiare dopo l’approvazione di un bilancio destinato a ingrandire la voragine del debito pubblico. Non s’era mai sentito un ministro dello sviluppo pronosticare come un oracolo un radioso, imminente futuro, in un momento di recessione come questo, in cui l’Italia, rispetto all’Europa economicamente in difficoltà, è ancora una volta il fanalino di coda. A meno che per radioso futuro quel bel tomo non intenda la “decrescita felice”, che era una delle bandiere di cui si fregiava il suo movimento, un pauperismo che lì per lì piacque anche a qualche settore della gerarchia pretesca, in primis al suo capo vestito di bianco. Se il leghista ha irritato con i suoi insulti i rappresentanti delle istituzioni europee, rendendo difficile l’approvazione della legge di stabilità e rompendo le uova nel paniere ad Arlecchino, il terroncello non ha esitato a manifestare il suo consenso ai gilet jaunes francesi. Feccia chiama feccia, con il pericolo di un incidente diplomatico. Sarebbe bello che, mentre si lancia un ponte alla teppaglia di Francia, scendesse nelle piazze italiche, proprio contro il sedicente “governo del popolo”, la teppaglia italica. Sì, teppaglia: perché se è vero che, all’origine in Francia, sono scese in piazza molte persone per bene, esasperate dalla pressione fiscale e da altre malefatte governative, poi, come sempre capita nelle rivolte. a prendere il comando è stata la teppa. E così capiterà anche in Italia. Anche la presa della Bastiglia, con tutto quello che ne seguì, fu opera della teppaglia. Anche la distruzione dell’Abbazia di Cluny, uno dei tanti delitti della Rivoluzione Francese. La feccia al potere, in nome del popolo, brandisce l’istituto del referendum come una clava. Il modello è la Svizzera. Qualcuno che ha conservato qualche reminiscenza scolastica cita anche la democrazia ateniese. Non ci si rende conto che non si possono prendere di peso modelli appartenenti ad altre culture politiche o a momenti storici di civiltà lontane di qualche millennio e trapiantarli sul tronco di un corpo estraneo. Guardate che cos’è successo nel Regno Unito, la patria della democrazia rappresentativa (quella che Churchill definiva la peggior forma di governo escluse tutte le altre, non pensando certo né all’Atene di Pericle né alla Svizzera d’oggi). James Cameron ha avuto la dabbenaggine di sottoporre a referendum la proposta di abbandonare la UE, con la certezza che avrebbero vinto i contrari, e invece, sia pur con una maggioranza risicata, hanno prevalso i favorevoli. Ora il governo del Regno Unito è in pieno caos. L’accordo raggiunto da Theresa May qualche mese fa con le autorità europee per un’uscita che non fosse troppo rovinosa è stato respinto dalla Camera dei Comuni, e se non si troveranno altre soluzioni fra poche settimane ci sarà un distacco automatico, senza accordi, gravido d conseguenze , per di più in un momento di difficoltà economiche a livello europeo e forse mondiale.La feccia che governa in Italia non se ne cura. Si stanno approvando disegni di legge per l’introduzione di referendum propositivi con “quorum” molto bassi (qualcuno voleva addirittura eliminare ogni tipo di “quorum”). Se non ci saranno ripensamenti, pare che basterà un numero di sì corrispondente al 25% degli aventi diritto perché la consultazione risulti valida. Il che significa che un’esigua minoranza potrà imporre il suo volere alla maggioranza. Giustificazione: chi non partecipa, delega implicitamente agli altri il potere decisionale che non intende esercitare in proprio. Sciocchezza enorme. Le deleghe non sono mai implicite, devono essere messe per iscritto. Anche in una semplice assemblea di condominio. Ora, se chiamiamo democrazia il “volere” della maggioranza, che razza di democrazia è quella proposta dalla feccia governante? E’ così anche in Svizzera? Se la tengano gli svizzeri, la loro democrazia, che chiama alle urne il popolo anche per decidere se tagliare o no le corna ai buoi o alle capre (il che è ridicolo), o se cacciar via i “tagliàn” (il che è vergognoso).Il governo feccioso è diviso sulle grandi opere pubbliche. I grillini sono contro la TAV e le trivellazioni nello Ionio, e hanno mal digerito il sì alla TAP in Puglia e al risanamento dell’ ILVA di Taranto. I leghisti che ce l’hanno duro sono invece favorevoli. Sono keynesiani. Gli altri invece sono pauperisti: basterà il reddito di cittadinanza a rendere tutti felici, in un’ Italia bucolica dove si andrà tutti in bicicletta e per l’illuminazione si tornerà alle candele. Quando però i keynesiani propongono, per la TAV, un referendum (sperando di vincerlo, viste le recenti manifestazioni di piazza a favore, organizzate dalle “madamine” torinesi), i pauperisti filo-referendari dicono di no, perché la decisione è già stata presa. Da chi? Da loro, che rappresentano il popolo al potere, anzi, sono il popolo al potere. Ci sarebbe un modo molto più elegante, e tecnicamente inoppugnabile, per dire no al referendum. Basterebbe fare appello all’art. 75 della Costituzione, che vieta i referendum per le leggi tributarie e di bilancio, e per l’autorizzazione e la ratifica dei trattati internazionali. La TAV scaturisce proprio da un trattato internazionale. Non può essere sottoposta al giudizio diretto del popolo. Non è che i grillini non conoscano quell’articolo. Sono ignoranti, ma lo conoscono. Su queste faccende si sono informati. Però è nelle loro speranze di poter spazzar via anche l’art. 75. Il popolo deve poter decidere su tutto!Vi ricordate quando il popolo fu chiamato a decidere sull’energia nucleare? Nessuno disse che, in caso di smantellamento delle centrali, sarebbe stata appioppata agli utenti, sulla bolletta elettrica, un’imposta chiamata “sovrapprezzo termico”. La stanno pagando ancora, insieme con quell’altro balzello ignominioso che è il canone RAI. Il grande fisico Edoardo Amaldi, in un dibattito televisivo con gli ecologisti anti-nucleari, li definì cretini: “Sono cretini, li conosco tutti perché sono stati miei allievi”. Erano tempi grami anche quelli, ma i governi di allora, messi a confronto con la feccia di oggi, sembrano quelli dell’Età dell’Oro. Ora siamo arrivati all’Età della Merda. Si salvi chi può.
* “Paracarri” era il nome dispregiativo con cui venivano chiamati i soldati francesi. “Far san Michele” significa significa sloggiare, perché il 29 settembre, festa di san Michele, si facevano i traslochi.
I referendum dei radicali nel 2000, furono l’occasione per questo paese di modernizzarsi , c’era di tutto: sistema elettorale uninominale maggioritario, separazione carriere magistrati, abolizione art. 18 sostituto d’imposta, inail ecc ecc. Si giocò sul quorum, il cavaliere della rivoluzione liberale esortò gli italiani “ad andare al mare” e fu fatta una campagna contraria scandalosa, terroristica, figurarsi oggi, come dice lei Don Giovanni, con questa “teppaglia” che impera sui diabolici social, anche uno solo di quei quesiti risulterebbe improponibile, troppo complesso e troppo “liberista”.
Oltre al quorum, grande nemico dei radicali Panneliani, ricordo che ci si metteva contro pure la corte costituzionale; no sul quorum non sono però d’accordo con quanto scritto, se una maggioranza non qualificata in tutti i sensi decide di distruggere questo sistema assurdo, lo faccia pure, così mettiamo fine a questa farsa. Chiaro che sono il primo a temere le possibili alternative al sistema attuale, ma è giusto a questo punto che il “popolo” si assuma le sue responsabilità…. così com’è altrettanto giusto che questi clown governino fino in fondo al burrone, sono convinto che siano funzionali ad interessi enormi, come se questa ennesima pagliacciata fosse già stata preventivata, già me li vedo
i titoloni “fate presto!!” andate a pagare la grossa patrimoniale!
P.s.: in tutto questo, trovo interessante come si sia eclissato Renzi dalla campagna elettorale scorsa ad oggi, forse è stato sottovalutato.
“i preti predicano un regno che non è di questo mondo, ma se possono allungano le mani per arraffare i beni di quaggiù”
Certo che il caro Napo poteva anche studiare una frase con un pochino più d’effetto: un Kenyatta qualsiasi lo mette KO. “Quando i missionari giunsero, gli africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare a occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.“
LA FECCIA AL POTERE SI CHIAMA PURE ACCADEMIA DELLA CRUSCA.
Notizia dell’ultima ora.
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“Da oggi “esci il cane”, “entra i panni”, o “siedi il bambino” non sono più errori gravi.
Basta prendere in giro i dialetti del sud che usano i verbi transitivi in modi fantasiosi. È l’Accademia della Crusca a decretarlo.”
E io che ho subito la sQuoLLa italiota, torturato da supplenti rigorosamente donne e terrone che sfoggiavano perle del tipo: “Uscite i libri”, “Cacciate i quaderni” , “Usate la penna ble”, “Chi vuole essere interrogato venisse alla cattedra” (il magnifico congiuntivo esortativo – che dal 40° parallelo in giù diventa legge – probabilmente anch’esso sarà sdoganato molto presto da coloro che dovrebbero risciacquar i panni in Arno).
Poi ci si stupisca pure perchè disistimo simili inutili parassiti.
EC … congiuntivo esortativo, *** usato all’imperfetto anzichè al presente, *** …
La nostra opinione sull’Accademia della Crusca è nota: inutile ribadirla. Istituzione parassitaria perché sostenuta da finanziamenti pubblici? Se la mettiamo su questo piano, sì. Parassitaria anche la Galleria degli Uffizi. Anche il Museo Egizio di Torino. Anche l’ Accademia di Santa Cecilia. Parassitario anche il Teatro alla Scala. Anche il San Carlo di Napoli (il teatro più bello del mondo). Parassiti anche quelli che lavorano in un ospedale pubblico, cominciando dai più illustri medici e chirurghi. Mangia pane a tradimento anche le Università e i centri di ricerca. Il fatto è che viviamo entro una cornice statale, dove gran parte dei servizi sono forniti, direttamente o indirettamente, dallo Stato. Fin che le cose stanno così, che facciamo? Da anarchici, sputiamo su biblioteche, musei, enti teatrali e musicali, teatri, ospedali, centri di ricerca perché pubblici? Io sputerò piuttosto sui “navigator” che si dovranno assumere per il reddito di cittadinanza o sui 15.000 sbirri che Salvini vuol assumere, come se non avessimo già abbastanza rompicoglioni, che vessano il povero cittadino perché magari non ha allacciato la cintura, ma non sono in grado di reprimere la criminalità vera.
L’Accademia della Crusca ha svolto un’utile funzione per la tutela e la diffusione della lingua italiana, fin dalle sue origini, quando l’Italia come Stato unitario non esisteva ancora. Continua a svolgerla, e in modo eccellente. Il suo presidente attuale, Claudio Marazzini (carriera universitaria, pubblicazione di duecento libri di linguistica: parassita anche lui?) ha chiarito che non si è voluto affatto ammettere espressioni come “esci il cane” e simili. Si è detto soltanto che sono tollerabili in conversazioni di registro basso, familiare e regionale, non certo in contesti sorvegliati e formali. Vorrei aggiungere che non sono sgrammaticati solo i terroni, ma anche i polentoni; e che, se non vado errato, soni i veneti a dire blè per blu.
Consiglio all’amico Max di consultare in rete il sito dell’Accademia della Crusca. Forse cambierà idea.
Questa volta non sono del tutto in disaccordo con Max.
Premessa: il problema delle “menti” che lavorano per lo Stato è stato ampiamente dibattuto in altra sede (ai tempi della polemica con il professor Marco Bassani, che, in quella occasione si è dimostrato meno gioviale del solito, scegliendo una comoda ritirata tra insulti e “ban” su Facebook).
Io penso (come scritto allora) che il problema non sia tanto nel comportarsi da parassiti (non generalizzerei) quanto di ordine morale (lavorare per lo Stato, causa di degrado morale e schiavitù dei produttivi e percepire denaro estorto, è moralmente accettabile, tanto più se in condizioni di totale assenza di corrispondenza tra prestazione e compenso?). Chiaramente però la cosa vale per chi si professa anarchico o almeno libertario, per gli altri il problema non si pone (o si pone a un livello più profondo). Dubito che ci siano anarchici all’interno dell’Accademia.
Sicuramente un alibi è da spazzare via: quello dell’assenza di alternative, come conseguenza del monopolio dello Stato in certi settori (allora era la scuola, qui direi la “grammatica”). Penso sia assolutamente falso che la “vocazione alla cultura e all’insegnamento” (in ogni settore) si possa realizzare solo nel contesto del posto fisso statale o della sovvenzione statale: esistono infiniti modo di soddisfare questa vocazione, che purtroppo non comportano posto fisso e totale alienazione (al contrario però: non il frutto del lavoro dal lavoro, ma del lavoro da frutto del presunto lavoro).
Il caso dell’Accademia della Crusca è un evidente episodio di corruzione e di assenza di onestà intellettuale, il tutto per compiacere il padrone pagante, ovvero lo Stato.
In un’epoca in cui l’assenza di competenze e di contenuti, l’approssimazione tecnica (anche giuridica, si pensi al “femminicidio”), la negazione della competitività sono elevate a “stile” di Governo, quale migliore supporto culturale potrebbe dare un’agenzia pagata dallo Stato (con tutto il rispetto per il passato autorevole) se non “autorizzare” (“sdoganare”) la neo-lingua ufficiale?
Cambia poco se l’indicazione di ammissibilità riguarda il linguaggio colloquiale: qui non si parla di abuso di “però” o di “cioè”, o di ortografia, si parla di confusione tra transitivi e intransitivi, tra soggetti e oggetti, roba da bestie (non importa la collocazione geografica).
Continuo a non capire questo accanimento contro l’Accademia della Crusca, che tra l’altro rischiò di morire, se non vado errato, una decina di anni fa, quando si era nel pieno della crisi economica e bisognava in qualche modo salvare i conti pubblici dal tracollo. Non ci sono problemi e argomenti molto più gravi, in un momento come questo, in cui si sta scivolando bellamente verso il baratro grazie a un manipolo feccioso di incompetenti (e mal parlanti!) che si sono insediati al governo sulla base di un infame contratto, in nome del “popolo”, al quale era stato promesso tutt’altro? Che fanno di male i cruscanti? Ci sono decine di istituzioni pubbliche, o sovvenzionate dallo Stato, molto più infami (si pensi a certo cinema “di qualità”, che nessuno va a vedere). Caro Leporello, non vedo il nesso tra quanto sostenuto da Vittorio Coletti a proposito di certi registri linguistici “bassi”, tollerabili solo (ripeto:solo) nella conversazione colloquiale, e le sgrammaticature di chi, al governo, pare addirittura compiacersi della propria ignoranza, in tutti i campi, da quello umanistico a quello scientifico. Nessuno vuol legittimare l’eloquio informale e quello dialettale fuor dei loro contesti. Un vecchio professore di Liceo mio amico soleva dire ai suoi allievi che non esistono parole belle e parole brutte, ma solo pertinenti e non pertinenti. Il padre Dante, nell’Inferno, nel cerchio dei ruffiani e delle femmine lusinghiere, dovendo qualificare Taide, la chiama brutalmente “puttana”; nel Paradiso, nel Cielo degli Spiriti Amanti, non usa il medesimo termine per Rahab, che pur faceva il medesimo mestiere. In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni. E’ quel che non ha capito il biancovestito seduto sul soglio di Pietro, il quale si permise di dire, in una cerimonia ufficiale, che Gesù, quando nell’episodio dell’adultera traccia segni sulla sabbia, “fa un po’ lo scemo”. Ha ragione Giuliano Ferrara a pensare che prima o poi se ne uscirà con un “Mortacci tua!”. Monsignor Gianfranco Ravasi (che tra l’altro è scrittore finissimo) sembra invece difenderne il linguaggio sciatto e paratattico, così vicino a quello dei giovani. Intanto i riti, un tempo splendidi, del culto cattolico, donde il registro altissimo del latino è stato da tempo bandito perché il popolo deve “capire” non si sa bene che cosa, vengono sempre più disertati. Coletti non ha giustificato nulla di simile.
Non so i veneti (stanno bene pure loro, ma hanno una “santa” ignoranza data dalla grande operosità, non dall’ozio e da una laurea regalata nelle due sicilie), ma nel napoletano “ble” è la prassi, cosi come “cleb”, “Curmaier”…Tutto il sud in genere ha una incapacità cronica di pronunciare bene i suoni francesi che vuole a tutti i costi scimmiottare, quando potrebbe dire benissimo “blu”, “club” o “Cormaiore” alla fascista. E pure le dieresi tedesche sono un ostacolo insormontabile, per cui Hitler era il “fiurer”. Ricordiamo anche che pareti e unghie per loro si “pittano”. Inoltre, pur non essendo un uso sbagliato, ma desueto, datemi un terrone che sappia dire “interpretare” invece di “interpetrare” e io vi solleverò il mondo.
btw
mesi fa ho fatto un tour sul sito dei cruscoidi e ho pure postato un link dove era chiaro che non si sbilanciano, tengono il piede in due staffe e attaccano l’asino dove vuole il padrone; prendo atto del loro passato glorioso, ma guardo all’oggi. I pellirosse direbbero che “parlano con lingua biforcuta”.
“Attaccare l’asino dove vuole il padrone”, ben detto: è questo il motivo del mio biasimo verso l’Accademia in questa occasione specifica, nessun accanimento! Solamente il sospetto di un allineamento ai “valori” del potere odierno, analogo alla tolleranza dei giuristiper il concetto di “femminicidio” (ma anche dei linguisti, pensandoci bene).
Mi sembra che l’apertura verso la bestialità di “scendi il cane che lo piscio” sia molto più grave (nemmeno paragonabile, a dire il vero) di “ble” invece che “blu” (ma anche di “Cormaiore”, mentre “interpetrare” è sgradevole ma corretto e presente in letteratura) e che non sia una questione di dialetto: il dialetto ha una propria coerenza e dignità, “scendi il cane” è un problema di impoverimento “logico” prima che linguistico.
“Interpetrazione” si legge in Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Non mi risulta che il nonno di Alessandro Manzoni fosse un terrone.
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Che cosa non era abbastanza chiaro nella frase “pur non essendo un uso sbagliato, ma desueto” tanto da citarmi il nonno di Manzoni, noto scrittore dei nostri giorni candidato al prossimo Strega?
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Il fatto è che se si prende un Santoro o un Camilleri qualsiasi e gli si fa ripetere a mo’ di scioglilingua “interpretare” 100 volte non ne azzecca una.
In calabria Crotone diventa Cotrone, capretto diventa crapetto: è una questione di radici, nel loro dialetto si dice così, ne sono intrisi fino al midollo, possono avere 12 lauree e avere scritto 120 libri, ma non cambiano. Leone, principe del foro, continuava a fare corna, scongiuri e “tiè” come un popolano qualsiasi. De Crescenzo ingegnere e scrittore, in una intervista a casa sua, mentre preparava da pasta, assaggiandola mentre cuoceva sentenziò: “Si deve fare ancora”.
Non c’è rimedio con questa gente sul piano lessicale: cafoni sono e cafoni restano.
E’ paradossale che, mentre un tempo – fino ad epoca abbastanza recente, con Gadda e Arbasino nella veste di oppositori – l’Accademia della Crusca era avversata per il suo conservatorismo linguistico, ancorato a modelli ormai obsoleti e sordi all’evoluzione della lingua d’uso, oggi venga attaccata per il suo presunto lassismo. Vorremmo che sostenesse ancora un modello monolitico, legato magari ai Trecentisti e impermeabile a alla modernità? Sarebbe ridicolo. La lingua non è un blocco di granito che rimane sempre uguale a sé stesso, mantenendo una struttura omogenea. E’ piuttosto come un fiume che scorre, rimanendo dentro i suoi argini ma modificando le sue correnti ed, entro alcuni limiti, il suo tracciato, presentando acque qui limpide e là torbide, in un punto fluenti e in un altro stagnanti. La linguistica moderna non detta leggi, si limita a registrare l’uso in tutte le sue varianti e nel corso della sua evoluzione. Come però, al fine di non causare inondazioni, gli argini e il letto dei fiumi devono essere tenuti sotto controllo, se necessario intervenendo attivamente con opere ingegneristiche, così la lingua abbisogna di “manutenzione” da parte di chi se ne occupa, non ultimi gli insegnanti. Io sono il primo a deplorare che, oggi, in ambito scolastico, si sia diventati di manica troppo larga; e che anche dizionari pubblicati per la scuola accettino forme a mio parere censurabili. La scuola deve continuare a usare la matita rossa e blu, come ai bei tempi, evitando da un lato il manicheismo talebano e dall’altro l’apertura indiscriminata a ogni nuovo vezzo linguistico. Altra cosa sono i dizionari volti agli studi d’alto livello, che non devono avere alcuna funzione normativa, ma limitarsi a registrare l’uso della lingua in un determinato momento storico, distinguendo fra i vari registri, da quello più elevato a quello più basso, e lasciando largo spazio anche ai linguaggi specialistici, nonché alle forme gergali e dialettali. Il linguista è uno scienziato: descrive la realtà com’è, non come vorrebbe che fosse. Il maestro di scuola è come il medico: suggerisce la dieta migliore e prescrive i farmaci più opportuni in caso di malattia, senza pretendere di modificare la struttura fisica del paziente. L’Accademia della Crusca è lo scienziato, la scuola il medico. Lo scienziato rileva che in alcune aree linguistiche il verbo “scendere” è usato in senso causativo. Il maestro di scuola, in un lavoro scritto o nel corso di un’interrogazione orale, lo censurerà, spiegando che è bene bandirlo dal registro linguistico della persona mediamente istruita. Francamente, non vedo dov’è il problema. Nihil sub sole novi.
@Leporello
Non condivido. L’assenza di alternative è reale, non un alibi da spazzare via. Gli “infiniti modi” di soddisfare presunte vocazioni non ci sono. La guardia di finanza viene a scocciare anche coloro che danno lezioni private e nessuna banca concede il mutuo a chi vive clandestinamente di dette lezioni. Il problema non è la vocazione ma la necessità. In un contesto dove l’iniziativa privata è vietata, non possiamo prendercela con chi non agisce eroicamente. Se l’alternativa è il gulag non siamo tutti obbligatoriamente coraggiosi; anche se siamo libertari e qualche accademico non “cruschiano”, cito per tutti Carlo Lottieri, lo si può trovare. Per le mie prestazioni ho ricevuto più volte, anche se sempre con notevole ritardo, denaro dalla RAI. Sono per questo un libertario incoerente perché l’azienda è statale? Dovevo rinunciare, in nome degli alti principii, a nutrirmi e soprattutto a nutrire? Quelli che accettano il lavoro in un regime comunista sono antilibertari perché il loro posto è statale? Beati i popoli che quando hanno bisogno di eroi li trovano. Non troveranno me, mi dispiace per loro. Ho già rinunciato a tanto a causa delle mie dichiarate idee per potermi permettere di rinunciare anche a sopravvivere. E la questione della sopravvivenza non riguarda solo me ma anche il mio nucleo originario e quello successivo. Tengo famiglia? Sì, ma non mi atteggio a eroe. Chi è già grasso potrebbe sostenere finanziariamente il pensiero antistatalista ma preferisce ingrassare ancora di più collaborando con lo stato e avere una legislazione di favore. Contestiamola a questi individui l’incoerenza: non si attua la rivoluzione liberale con socialisti, corporativisti, confessionalisti, proibizionisti, nazionalisti, conservatori e “moderati”.
@Alessandro Colla
Non mi riferivo certo alle lezioni private date in nero (per cui, sia chiaro, ho il masismo rispetto e che, frequentemente, sono più efficaci delle lezioni regolarmente somministrate per conto dello Stato).
Mi riferivo al fatto che, se la vocazione è per la didattica, tutto il mondo professionale non statale ha una enorme richiesta di didattica, intesa come trasmissione del sapere e delle informazioni e dei “metodi” per costruire il sapere.
Diverso è pretendere, con la scusa dell’insegnamento, di parlare per tutta la vita professionale degli argomenti che più stanno a cuore. Ricordo tra i miei insegnanti, un tale che per 20 anni aveva dedicato diversi mesi di lezione, ogni anno scolastico, alla “Questione Meridionale”, argomento della propria tesi, fermando puntulamente il programma di Storia ai presupposti della Prima Guerra Mondiale (poi bastavano due firme sul foglio del programma a sistemare le cose, magari approfittando della leggerezza di umore che i rappresentanti avevano all’approssimarsi delle vacanza). Non a caso, ricordando la mia esperienza di alunno, trovo moltissimi insegnanti innamorati dei proprio contenuti, più che dell’insegnamento di per sé.
Chiaramente (l’ho scritto nel mio commento) non è possibile generalizzare.
Ci sono insegnanti realmente ispirati e contemporaneamente competenti: ma potrebbero non esserlo, e nessuna sarebbe la coseguenza. Questa sottigliezza costituisce un pericolosissimo dettaglia, spesso fonte di inconsapevole arrendevolezza allo “stato delle cose” percepito come inevitabile. Ma, davvero, fuori la richiesta di “didattica” è forte e insistente.
PS: Mi scuso, ma mi rendo conto di non aver risposto al dubbio sollevato circa la coscienza di un libertario. La risposta più onesta è semplice: non sono capace di dare una risposta. Forse il motivo è che non ho ancora capito cosa significa “libertario”. Nel mondo “libertario” trovo cosi tante contraddizioni (si pensi a Rothbard o Hoppe) da restare disorientato. Posso rispondere dal punto di vista anarchico e individuale: quando ho potuto scegliere se lavorare per lo Stato in modo “stabile”, dopo alcune esperienze come supplente, non sono stato in grado di accettare.
Mi pare che ci siamo allontanati non poco dal nocciolo dell’articolo, che invece non è stato neppure sfiorato. Vorrei porre il suggello alla questione linguistica (interessante, e più di una volta fatta oggetto di nostri interventi), con una citazione da Giovanni Arpino: “L’avevano sceso (il carro) dal crocevia, e sistemato molto bene tra i cespugli”. Si può leggere nel “Dizionario Treccani” diretto da Raffaele Simone, sotto la voce “scendere”. Proprio alla fine del lemma, si segnala l’uso regionale transitivo del verbo in senso causativo (“far scendere”). Adesso non mi si venga a dire che, poiché l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana è statale (fondato addirittura in epoca fascista, con il beneplacito di Mussolini e sotto l’egida di Giovanni Gentile) anche Raffaele Simone, linguista insigne, è un parassita e il suo dizionario porta acqua al mulino di Di Maio, Salvini e a tutti gli altri parassiti -quelli sì!- che stanno spingendo (scendendo?) l’Italia nel baratro.
Giusto tornare in tema.
Il dubbio è: il ruolo dell’Accademia è quello di “registrare” l’evoluzione di una lingua oppure “gestirne” l’evoluzione conservandone le fondamenta logiche? Più in generale: fino a quale punto, affinchè una lingua si conservi viva, deve essere consentita l’evoluzione? Oppure, al contrario, se la lingua è un codice e in quanto tale deve avere dei “punti” fissi (nessun codice può essere del tutto arbitrario, per sua stessa definizione e funzione), quali devono essere queste basi?
Ancora: se ipotizziamo di costruire una lingua per uno Stato unitario, prendendo, come “struttura” di partenza, una delle lingue (non direi dialetti) incluse nell’area geografica (non mi riferisco tanto solo all’Italia dopo il 1861, ma anche all’intervento di Napoleone, che rifondò l’Accademia all’inizio dell’Ottocento) quali autori devono essere presi come riferimento di “liceità” per la loro autorevolezza?
Nei primi secoli l’impronta fiorentina (anche nella scelta degli autori autorevoli) sembrava prevalente, poi le cose cambiarano, parallelamente al cambiamento della scena politica e geopolitica, che ne influenzò la direzione: forse non ho risposte a tutti i dubbi che ho elencato, ma l’idea che lo Stato (nelle sue diverse forme, alernatesi nei secoli) di risposte ne abbia date tante nel corsi degli ultimi due secoli si rafforza tanto più approfondisco la conoscenza dell’Accademia.
Il grande Pasolini 50 anni fa, che in meno di quattro minuti diceva sull’italiano le cose essenziali che risultano attuali anche oggi.
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