Don Giovanni

Decrescita felice e qualche altra farneticazione

Erano i tempi della cosiddetta “contestazione”, quella del mitico 1968, che molti vecchietti d’oggi evocano come un momento di consapevole maturazione etico-politica, idealizzando quelle manifestazioni di ribellismo non del tutto ingiustificate, ma segnate troppo spesso dalla violenza e da inconfessabili motivazioni furbesche, attraverso il ricordo d’una giovinezza ormai lontana, e per sempre perduta, la cui nostalgia sa colorare di rosa anche le scelte più scomposte, per non dire più ignobili.
Roma, in una giornata primaverile di sole sfolgorante, era attraversata da uno dei soliti cortei studenteschi, accompagnati dalle consuete urla contro il sistema, i padroni, il capitalismo, la repressione. Fra i tanti cartelli variopinti che i partecipanti inalberavano con orgoglio, ne spiccava uno, più imponente degli altri, proprio nel bel mezzo dello schieramento: “Abbasso la meritocrazia!”

La vecchia professoressa di Scienze, ormai in pensione, guardando dalla finestra del suo appartamento, scosse la testa. “E viva l’asineria!”- commentò tra sé. Romana di nascita, aveva sempre insegnato al Nord, soggiornando negli ultimi anni nella città di ***. Terminata la carriera, era tornata nella sua amata Capitale, dove aveva trascorso gli anni più belli della sua giovinezza. Non avrebbe mai pensato di dover vedere, negli anni della sua canizie, nulla di simile a ciò che in quel momento le si parava dinanzi agli occhi. Proteste studentesche ne aveva viste tante, e talora anche subìte, nella sua onesta e devota attività d’insegnante. Da giovane, anche lei aveva partecipato a qualche corteo. Nessuno però, neppure fra i più impudenti scansafatiche travestiti da ribelli, era mai giunto a sostenere che la scuola deve premiare anche gli asini. Perché abolire la meritocrazia nella scuola significa proprio questo: mandare avanti anche gli asini, dare un diploma e magari una laurea a tutti, naturalmente con valore legale. Così si avranno medici che accoppano i pazienti, dentisti che insieme coi denti strappano la ganascia, ingegneri che fan crollare i ponti, architetti che confondono arte romana e arte romanica (oltre a non saper tenere in mano una matita), professori di italiano che mal controllano congiuntivi e condizionali, matematici che conoscono a malapena le quattro operazioni, astrofisici che confondono l’astronomia con l’astrologia, chimici analisti che non sanno fare neppure un esame delle urine, grecisti che il greco antico l’hanno visto per caso una mattina col cannocchiale, da finestrino del treno, e via di seguito. Una bella società davvero. Peccato che a quei tempi non fosse stato ancora pubblicato il bellissimo saggio di Lucio Russo “La rivoluzione dimenticata”, dove si dimostra che fu proprio la degenerazione delle istituzioni deputate alla trasmissione del sapere a vanificare, nel tempo antico, gran parte delle conquiste scientifiche dell’epoca ellenistica, causando una decadenza che sarebbe stata riscattata sono nell’età del Rinascimento. La vecchia professoressa avrebbe trovato in quelle pagine una conferma dei suoi timori. Forse anche nel tempo antico qualche studente somaro aveva inalberato cartelli contro la meritocrazia, col bel risultato di un ristagno più che millenario.

Venendo ai giorni nostri, io non mi stupisco davvero che un pontefice balbuziente in italiano, zoppicante in latino, farneticante in teologia (le Persone della Trinità che litigano, Gesù che fa lo scemo), del tutto privo di sensibilità artistica, nemico della musica, in uno dei suoi sconclusionati discorsi abbia a sua volta inalberato – metaforicamente parlando – quello stesso cartello antimeritocratico che tanto aveva rattristato la vecchia professoressa di Scienze. No, non me ne meraviglio, perché è lo stesso che nell’enciclica Laudato si’ non ha esitato ad attaccare lo sviluppo capitalistico in nome della “decrescita felice” tanto cara a Piketty. Ora, è chiaro che per decrescere (non saprei fino a che punto felicemente) ci sono solo due modi: o instaurare un regime dispotico che pianifichi l’attività economica in modo tale da impedirne la crescita e favorirne la contrazione (piani quinquennali di disinvestimento), oppure abolire per legge la meritocrazia e lasciare che in tutti i campi, a cominciare dalla scuola, i somari e gli scansafatiche siano premiati come i capaci e i diligenti. Tempo una generazione, e la rivoluzione scientifica che ha portato tanto sviluppo e tanto benessere negli ultimi secoli, con un’accelerazione prodigiosa nei decenni a noi più vicini, verrà dimenticata. Ritorneremo ignoranti e poveri. Felici, non lo so. Il progresso ha portato il benessere, non la felicità. Il regresso porterà la miseria; quanto alla felicità non ci giurerei, ma potrei sbagliarmi. Io non impugno mai quel che non so.

Ecco, forse il biancovestito della Pampa pensa proprio così: “abolizione della meritocrazia = decrescita felice senza repressione”, nel rispetto della democrazia. Due piccioni con una fava.
Ma non è finita qui. Il suo discorso contiene altre gemme. Citando a sproposito Einaudi (forse lo conosce di nome, perché piemontese come i suoi nonni, e crede che la sua unica attività sia stata quella di contadino e vinattiere) afferma che il buon imprenditore non licenzia, non specula, non si comporta da commerciante. Tre cretinate, una più grossa dell’altra. Andiamo con ordine. Nessuno ha piacere di licenziare i suoi dipendenti, ma ci sono momenti di crisi in cui, purtroppo, se si vuol salvare l’impresa, è necessario affidarsi a scelte dolorose. Evitarle, significherebbe correre dritti al fallimento, distruggendo tutti i posti di lavoro, anche quelli che si potrebbero salvare. Fu Einaudi stesso, in più di un’occasione, a deprecare proprio quei preti che, per un malinteso senso di carità, si schieravano con i sindacati dalla parte economicamente sbagliata, pretendendo di salvare imprese in difficoltà senza tagliare i costi e incidere, di conseguenza, sull’occupazione. Anche sulla speculazione Einaudi è citato a sproposito. Fu proprio lui, in molte sue pagine, a chiarire che il termine “speculazione”, di solito usato in senso deteriore, non ha in sé nulla di deplorevole. Speculare in borsa è un’attività lecita e anche benefica. Comperare titoli a basso prezzo e rivenderli a prezzo più alto è quel che ogni buon agente di borsa deve saper fare, per il vantaggio proprio e dei propri clienti. Puntare sui titoli di una società di cui si prevede un sano sviluppo significa infondere fiducia nei dirigenti di quella società e favorirne il successo, che ridonda a beneficio di tutti: azionisti, dirigenti, operai, fornitori, consumatori. Certo che l’imprenditore deve fare l’imprenditore e non lo speculatore di borsa. Ma coi tempi che corrono questo discorso andrebbe fatto piuttosto ai banchieri, di cui invece stranamente si tace. Sarà perché il Vaticano non produce un bel nulla, ma in compenso ha una banca potente, chiamata ipocritamente Istituto per le Opere Religiose (anche Giuda aveva in mano la cassa delle Opere Religiose. Sappiamo com’è finita), i cui governatori in passato ne hanno fatte di cotte e di crude, e i pochi onesti, come Ettore Gotti Tedeschi, sono stati costretti a dimettersi.

La più bella però è la rampogna contro i commercianti. Forse che i mercanti non sono, a loro volta, imprenditori? Bisogna produrre, ma anche vendere. Nei tempi antichi il calzolaio vendeva al minuto le sue scarpe, il sarto i suoi vestiti, il panettiere il suo pane, l’ortolano la sua insalata, il macellaio la carne delle sue bestie. Oggi una fabbrica di scarpe non può raggiungere il consumatore finale, una tessitura non può vendere le sue stoffe al privato che vuol farsi un vestito, un impianto per la panificazione su scala industriale non può vendere la pagnotta alla singola massaia, la carne venduta nelle macellerie vene spesso da molto lontano, magari dall’estero. Nel mondo moderno l’attività distributiva è un servizio imprescindibile, un esercizio per cui sono necessarie, come per qualsiasi altro, spiccate capacità imprenditoriali. I supermercati sono tra gli esempi più moderni di tale attività. Il commercio in rete, che con la diffusione di Internet ha avuto uno sviluppo impetuoso, è ancora più moderno. Il capitalismo nasce anche e soprattutto come capitalismo mercantile. I mercanti fiorentini portavano prodotti d’ogni genere in tutta Europa. Spesso, oltre che venditori, erano anche produttori. Erano-guarda un po’!- produttori che facevano i commercianti. Grande civiltà, quella dei mercanti fiorentini, immortalata nel “Decameron”, la “Commedia umana” di Giovanni Boccaccio (chi era costui? Boh…)
Ho l’impressione che il biancovestito disprezzi i mercanti perché ha in mente uno dei più brutti episodi evangelici, così brutto che qualcuno lo ritiene interpolato, e anch’io, nella mia ignoranza, ho l’impressione che sia propri così. Non l’ho mai digerito. Avete presente? “(Gesù) trovò nel Tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti ai loro banchi. Fece allora una sferza di cordicelle e li scacciò tutti fuori dal Tempio, con le loro pecore e i loro buoi; gettò a terra i banchi dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato” (Gv, 2,13-14).

Diciamolo francamente: questo Gesù è irriconoscibile, fa a pugni con quello che emerge da tutte le altre pagine del racconto evangelico. Ha preso per un momento l’aspetto del Dio vendicativo e capriccioso dell’Antico Testamento, quello che si pente di aver fatto l’uomo e sommerge la Terra col diluvio; quello che e ordina sadicamente ad Abramo di sacrificargli il
figlio Isacco, per metterlo alla prova (ma Dio non è onnisciente? Di che prova ha bisogno?)
Dov’è finito il Gesù che ordina di porgere l’altra guancia a chi ti percuote?
Certo,il Gesù fasullo che scaccia i mercanti (povera gente che tira a campare come può) prendendoli a scudisciate, può piacere un sacco a uno che prenderebbe volentieri a sganassoni chi parla male della sua mamma. A ognuno il suo Cristo. Al biancovestito piace un Cristo incoerente, che fa lo scemo. A un libertino come me, piace quell’altro Cristo, quello che chiede al Padre di perdonare i suoi carnefici, perché non sanno quello che fanno. E che nella parabola dei talenti dimostra di essere meritocratico. Chi non ha saputo far fruttare il suo talento, sia privato anche di quello che gli è stato dato. Altro che premiare i somari.

Don Giovanni Tenorio

PS. Si può aver l’impressione che qui le mie affermazioni a favore della meritocrazia cozzino contro quanto ebbi a sostenere in passato in un altro articolo. Non è così. Sarebbe illiberale pretendere che ciascuno fosse remunerato secondo una scala di valori predeterminati, anziché sulla base dei meccanismi di mercato; o pretendere che tutti godano di punti di partenza economici assolutamente egualitari, ad esempio confiscando, al di sopra di una certa quota, i beni ottenuti in eredità. E’ chiaro che se un calciatore guadagna molto di più di un poeta grande come Dante, di un artista grande come Michelangelo, di un musicista grande come Bach, di uno scienziato grande come Einstein, la cosa può far dispiacere -e sarei il primo a dispiacermene- ma se così vuole il mercato, perché i più amano il calcio alla follia mentre di letteratura,arte musica e scienza se ne fanno un baffo, non c’è niente da recriminare; sarebbe un sopruso confiscare le rendite del calciatore e redistribuire il ricavato a chi svolge attività intellettualmente più elevate, o ritenute tali. Spesso sono perfetti imbecilli a ereditare sontuosi patrimoni, che poi per la loro incapacità mandano in fumo. Questo non è un buon motivo per sottrarglieli e consegnarli ad altri, che sono più capaci o tali si presumono, perché li facciano fruttare a beneficio di tutti. Piaccia o non piaccia, a decretare il successo o l’insuccesso d’una persona molto spesso è la fortuna. Però è chiaro che un ospedale dovrà scegliere i medici migliori, un imprenditore gli operai migliori, un teatro gli attori migliori, un ristorante i cuochi migliori, e via di seguito. Qui il merito rientra in gioco, ma non ha più nulla di illiberale, anzi è l’unico criterio grazie al quale si può costruire un sistema efficiente e, di conseguenza, più giusto. In una scuola il merito è tutto. Ricordo un titolo, allora controcorrente e quasi blasfemo, dell’ editore Armando, su una sua rivista di didattica: “No a don Milani: bisogna bocciare”. Tra l’altro diceva: bocciare in alto (alle Superiori, all’Università), per bocciare di meno in basso. Solo un insegnante che, grazie a criteri meritocratici, sarà stato selezionato in base alle proprie doti culturali e didattiche sarà capace di recuperare alunni difficili, che invece con un collega mediocre resterebbero abbandonati a se stessi. Parole sante.

Giovanni Tenorio

Libertino

Un pensiero su “Decrescita felice e qualche altra farneticazione

  • Alessandro Colla

    Ma se al capo del Movimento Cinque Santi non piace il negoziante che non produce direttamente ciò che viene venduto, perché non dà il buon esempio? Smetta di fare il produttore per altri e faccia il parroco di Sant’Anna. Così venderà ciò che produce. Teologicamente e culturalmente parlando, il nulla. Quando ho letto di una sua “cantante preferita”, ho telefonato a quest’utlima che ho la ventura di conoscere. Mi ha detto di ritenere che quel titolo potrebbe danneggiarla, in quanto il “non signore rinascimentale” sta all’arte come il sottoscritto all’atletica. Il Gesù violento non piace neanche a me. Voglio considerarlo come uno che ha difeso la proprietà “del padre suo”. Che però non era Yosiph ben Yacob, il padre adottivo. In fondo se uno pretendesse di vendere in casa mia, anche se fossero libri o altro prodotti a me graditi, lo caccerei. Solo che non credo che la sinagoga in questione appartenesse al Nazareno come titolo di proprietà. Prendiamola così: è fastidioso vedere venditori, spesso di pessime pubblicazioni, all’interno della reggia di Caserta. Si può essere tolleranti perché altrimenti quei venditori sarebbero preda della criminalità organizzata. Ma se il Ministero dei Beni Culturali, “proprietario” della struttura, emanasse un ordine di impedimento alla vendita interna non mi sentirei di biasimare il ministro o il sovrintendente responsabile della struttura. Stesso discorso se il proprietario non si chiamasse Mibac ma Borbone.

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