Una strana razza di liberali
Del profitto è sempre stato di moda dire tutto il male di questo mondo. C’è un bell’articolo di Luigi Einaudi che, in proposito, andrebbe letto (o riletto, per quei quattro gatti che l’abbiano già fatto). Si intitola proprio, un po’ provocatoriamente, “In lode del profitto”. Enuncia una verità inconfutabile, che molto più avanti, in altri termini ma conservandone il succo, anche Milton Friedman avrebbe ribadito: il profitto non è un furto, come invece pensava Marx con la sua teoria del plusvalore, inteso come sottrazione, perpetrata dal capitalista, di una parte di ricchezza spettante al lavoratore che l’ha prodotta, ma il segno e il premio di un’attività imprenditoriale condotta in modo efficiente, che ridonda a beneficio non soltanto di chi l’ha intrapresa, ma di tutta la collettività. Il contrario del profitto è la perdita, che costituisce uno spreco di ricchezza a danno prima di tutto del cattivo imprenditore, ma anche dei suoi dipendenti e, in ultima analisi, della società intera, che come conseguenza risulterà nel suo complesso più povera. Superfluo aggiungere che il profitto così inteso presuppone un sistema economico concorrenziale, per quanto è umanamente concepibile (il mercato perfetto è un’astrazione, utile sul piano teorico finché si rimane coscienti che tale è) e il pieno rispetto di quelle norme etiche senza le quali il consorzio umano sarebbe travolto. Si badi bene: le norme etiche generali, non alcune norme particolari che valgono solo in campo economico. Quando al semianalfabeta di Montenero di Bisaccia in un’Università farlocca del Varesotto venne assegnata una fantomatica cattedra di “Etica degli Affari” mi piegai in due dalle risate. Forse che vendere un orologio di ottone come orologio d’oro è una truffa diversa dal millantare una laurea che non si possiede allo scopo di ottenere un riconoscimento, anche soltanto morale, del tutto immeritato? Anche se il risultato può essere diverso (da una parte si infligge un danno economico, dall’altra, di solito, no) il comportamento, in entrambi i casi, è quello del truffatore. In Italia una ministra dell’Istruzione può fingersi laureata senza esserlo e, se scoperta, rimane al suo posto; in qualsiasi altro Paese sarebbe costretta a far fagotto, perché la sua millanteria sarebbe considerata un’offesa a tutto il popolo, in nome del quale esercita la sua funzione di governo. Forse che vendere mezzo chilo di patate facendole pagare per un chilo è un furto diverso dallo sfilare di tasca il portafoglio a un malcapitato su un bus nelle ore di punta? E’ sempre furto. Settimo non rubare. Forse che vendere azioni di Parmalat o del Monte dei Paschi sapendo che sono tossiche è diverso dall’offrire per buona a un povero bambino, soltanto per dispetto, una mela bella di fuori, sapendo che dentro è marcia e potrebbe fargli male? In entrambi i casi è un inganno, e poco conta il fatto che nel primo le conseguenze sono economiche, nel secondo sanitarie.Il profitto non va confuso con la rendita, che non è il frutto di abilità e sana gestione, ma di una situazione di privilegio, dovuta talora a circostanze accidentali ma molto più spesso a un quadro legislativo che protegge alcuni interessi a scapito di altri. Se un imprenditore mette sul mercato un nuovo prodotto ottenendo successo, finché non dovrà fare i conti con imprese concorrenti che offrano il medesimo prodotto o un prodotto simile, può richiedere un prezzo anche di molto superiore a quello marginale che dovrebbe accettare in una situazione di concorrenza perfetta. E’ giusto che sia così, e così è sempre stato. Non è una vera e propria rendita, è un alto profitto che può essere ritenuto il premio – per un tempo limitato – della genialità innovativa. Ma se l’imprenditore in qualche modo ottiene per il suo prodotto un’esclusiva, riuscendo così a escludere i potenziali concorrenti e a trincerarsi in una situazione di monopolio, allora sì che il suo profitto, inizialmente legittimo, si converte in rendita: rendita conforme alle leggi vigenti, sia ben chiaro, ma deleteria sul piano dell’efficienza economica e, a mio parere, deplorevole su quello dell’etica. Non è necessario aderire all’anarchismo di mercato, come noi, o anche soltanto al liberalismo classico, per aver ben chiara la differenza tra rendita e profitto. Basta conoscere qualche rudimento di economia. Poi uno può anche ritenere che in alcuni casi la rendita sia, se non un bene, il minore dei mali. I protezionisti ne sono convinti. Pensano che le barriere doganali, per quanto costituiscano un privilegio a favore di alcune attività economiche, possano essere talora necessarie per proteggere un’industria nascente che altrimenti sarebbe soffocata da una concorrenza straniera molto più solida e agguerrita. E’ il caso, ad esempio, dell’industria siderurgica nell’Italia fra Ottocento e Novecento, che pretese e ottenne robusti interventi protezionistici proprio per far fronte a colossi stranieri altrimenti imbattibili. Einaudi , insieme allo sparuto drappello dei liberali veri di allora (anche a quei tempi erano quattro gatti) si oppose senza alcun successo. Disse che l’Italia aveva tante risorse da poter diventare ricca anche senza le acciaierie. Si è preferito continuare a puntare sull’industria pesante, sconciando il territorio con scarsi benefici. Andate a vedere che inferno è il quartiere Tamburi di Taranto dove ha sede l’ILVA. Ma questa è un’altra storia che ci porterebbe lontano dal tema che qui stiamo trattando. Tornando a noi: certe idee dovrebbero essere chiare per tutti. Invece no. C’è un signore che non tralascia occasione per definirsi liberale, ma non conosce la differenza tra rendita e profitto. Scrive su un importante quotidiano nazionale, di cui è anche vicedirettore, è titolare di una prestigiosa rubrica televisiva del gruppo Mediaset, dispone in rete di un sito che vanta un invidiabile numero di seguaci (altro che i nostri venticinque lettori!), molti dei quali hanno per lui un’autentica venerazione. Su questo sito, quasi ogni giorno, interviene con un video in cui presenta una panoramica della stampa quotidiana, accompagnata da commenti “a caldo”, spesso conditi con qualche espressione piuttosto informale. Qualche giorno fa parlava della proposta di Biden, fatta propria anche da Draghi, di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid riconosciuti alle grandi case farmaceutiche che li producono. Non entro nel merito della proposta. Per quanto mi riguarda, io i brevetti li detesto, come detesto ogni forma di privilegio. I vaccini anti-Covid (che poi veri vaccini non sono) non avrebbero mai dovuto essere brevettati. Anzi, sono convinto che senza brevetti e senza sovvenzioni non ci sarebbero mai stati, così si sarebbe evitato di trasformare la popolazione mondiale, con la complicità dei governanti e la benedizione di Santa Romana Chiesa, in un enorme campo sperimentale con cavie gratuite(*). Ma non divaghiamo. Il signore di cui dicevamo è entusiasta dei vaccini anti-Covid, e va bene, fatti suoi. Il guaio è che si è messo a difenderne i brevetti proprio in nome dei principi liberali, tirando in ballo nientemeno che Adam Smith! Se c’è un personaggio che proprio non andava scelto come sostegno al suo bislacco argomentare è proprio colui che viene considerato il padre dell’economia di mercato. I brevetti, al pari di ogni altra forma di protezionismo, sono proprio il contrario di quella libera concorrenza che Smith esalta come motore di un sano sviluppo economico. Tutto il pensiero autenticamente liberale l’ha sempre seguito. Se è vero che i brevetti e i copyright nascono timidamente fra Seicento e Settecento nel Regno Unito (più come limitazione del privilegio regale di concedere esclusive che come protezione dalla concorrenza a beneficio di alcuni soggetti privati), è anche vero che hanno avuto un grande sviluppo a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento, per raggiungere il culmine nella nostra epoca, quella del… “liberismo selvaggio” , come la chiamano alcuni dottori che l’hanno intesa proprio tutta a rovescio, alla maniera dell’avvocato Azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Difendere i brevetti non significa difendere il profitto, ma la rendita, non significa difendere il libero mercato ma proporre una politica economica di stampo mercantilista (proprio quella contro cui Smith lanciava i suoi strali), non significa difendere la proprietà privata ma una fantomatica “proprietà intellettuale” che è un’invenzione giuridica moderna insostenibile sul piano della Filosofia del Diritto (ognuno, senza rubare niente a nessuno, ha lo jus utendi et abutendi di un’idea nata da una mente individuale ma divenuta di dominio pubblico. Fino a tutto il Settecento e oltre, tutti i musicisti usavano scopiazzarsi tra loro, con grande soddisfazione reciproca. Allora nascevano i Mozart, che mandavano il pubblico in visibilio, oggi gli inascoltabili Sciarrino, che solo i critici cacano). Essere contro i brevetti non significa essere comunisti, come quel signore pretende. O meglio: significa essere comunisti nel solo caso in cui bisogna essere tali, se si vuole nel contempo essere liberali; laddove, cioè, non esiste scarsità, e quindi la proprietà privata non ha senso. Non avrebbe senso in assoluto se tutti i beni materiali fossero abbondanti come il pozzo di San Patrizio. Lo stesso Marx si illudeva che la società destinata a scatutire dal crollo del Capitalismo sarebbe stata una società dell’abbondanza, in cui la proprietà privata non avrebbe avuto per ciò stesso ragion d’essere. La Storia gli ha dato torto. Ma sul piano teorico il ragionamento fila. Avete indovinato chi è quel signore? Io gli applicherei un giudizio di Bertrando Spaventa: “E’ una razza di liberali che aborro, perchè non hanno nulla per meritare questo nome.”
(*) Si legga, sul “Corriere della sera” di sabato 8 maggio, pag.9, l’intervista al più blasonato immunologo italiano, Alberto Mantovani, direttore scientifico e presidente della Fondazione Humanitas. L’illustre scienziato spiega chiaramente che la Covid 19 è stata l’occasione d’oro per sperimentare, per la prima volta e su larga scala, una tecnica in cantiere da vent’anni per mettere a punto un vaccino contro i tumori.
A mio avviso rimarrebbe il senso della proprietà privata anche senza scarsità di risorse. Il mio corpo è proprietà privata anche se i corpi sono tanti. La mia abitazione rimane proprietà privata anche senza crisi degli alloggi o in assenza di senzatetto e la condivido solo con chi voglio. Il mio teatro (ne avrò mai uno?) rimane mio anche se ogni altro abitante della terra ne possedesse uno o più di uno. Perché lo voglio lì dove lo ho costruito, non mi interessa se posso usufruire di tutti gli altri teatri del mondo. L’indovinello è intrigante ma tutta Mediaset è non liberale; a cominciare dal suo primo proprietario che predicava la rivoluzione per poi privatizzare nulla e appoggiare i proibizionisti. Non sono sicuro di aver individuato lo pseudoliberale ma forse somiglia nel nome al predecessore istituzionale di Einaudi e ha il cognome identico a un vegetale culinario, purtroppo sinonimo anche di un difetto cutaneo che gli scienziati denominano fibroma pendulo; se ho sbagliato è perché vedo pochissima televisione a causa della sempre maggiore povertà dei programmi. Una curiosità: perché per quello di Montenero si usa il prefisso “semi” in relazione alla sua istruzione?
Caro Colla, centrato! Il signore cui faccio riferimento è proprio quello da lei indicato con argute allusioni. Ho gratificato quell’altro signore con un “semi-” perché almeno sa leggere e scrivere (male), un po’ meno far di conto; infatti in un vecchio video ricordo che diceva: “Punto numero uno, punto numero due…” e nel contempo accompagnava le sue parole alzando prima due e poi tre diti della mano destra, che teneva protesa . Quanto al discorso del Pozzo di San Patrizio, è chiaro che – ammesso e non concesso che si possa mai raggiungere qualcosa di simile -varrebbe soltanto per i beni fungibili. Non si possono avere infinite ville Cimbrone di Ravello o ville Serbelloni di Bellagio, per prendere ad esempio due gioielli situati nei luoghi più belli del mondo.