Don Giovanni

Auguri, Fabio Massimo Nicosia!

Ho una grande considerazione per Fabio Massimo Nicosia. Ho letto molti suoi libri e molti suoi articoli, lo seguo su Facebook. Mi capita di essere spesso in pieno accordo con le sue considerazioni. Credo che anche lui abbia qualche contezza di quanto io scrivo. Qualche tempo fa ho addirittura osato recensire un suo poderoso saggio (spero di non averne travisato il succo e di non essere incorso in qualche abbaglio, facendo un torto al suo autore).  Pur non conoscendolo personalmente, lo considero un amico. Gli sono grato per avermi aperto gli occhi sull’errore che sta alla base del pur benemerito pensiero di Murray N.Rothbard, quello che comunemente viene chiamato anarco-capitalismo. Qual è questo errore? Quello di aver mal inteso il fondamento della filosofia politica di Locke, il pensatore cui in un modo o nell’altro si rifanno tutte le correnti ideali riconducibili al Liberalismo; non ultimo quel tipo di anarchismo che, accettando il libero mercato e facendone il cardine di un assetto sociale privo di apparati coercitivi, può essere considerato un liberalismo portato alle sue conseguenze estreme. Di solito il libero mercato è considerato imprescindibile dal diritto di proprietà, e in linea di massima il concetto è giusto: in una sistema in cui tutti i beni fossero concentrati in un unico soggetto politico che si proclami portatore dell’interesse pubblico, la libertà individuale è destinata a essere soppressa. In teoria, si potrebbe dare anche un sistema politico-sociale in cui tutta l’economia è nelle mani di un organismo pianificatore, mentre tutte le altre libertà individuali, nessuna esclusa, sono costituzionalmente garantite. In pratica, quando un soggetto riserva a sé ogni diritto proprietario, diventa padrone delle anime e dei corpi di tutti i consociati. Il dotto dibattito fra Croce e Einaudi su Liberismo e Liberalismo, con tutto il rispetto per il grande filosofo, vede vincitore l’economista Einaudi: il libero mercato è condizione non sufficiente, ma di certo necessaria come fondamento di una società libera. Però, attenzione: poco importa che il soggetto in cui si concentra tutta la  proprietà si definisca formalmente pubblico (lo “Stato”, per intenderci) o privato. Il risultato non cambia: oppressione per tutti, imposizione a tutti del volere di chi sta sopra. Un esempio attualissimo? La censura che di questi tempi i cosiddetti “social”, saldamente in mano a pochi padroni, esercitano sulle voci che esprimono dissenso dalle opinioni prevalenti in tema di “pandemia”. La catena che lega il sistema bancario internazionale alle grandi case farmaceutiche ai più potenti e prestigiosi mezzi di informazione è una morsa che tende a strangolare il libero pensiero. Chi avrebbe immaginato anche solo pochi mesi fa che qualcuno potesse oscurare il discorso  di un presidente degli USA? Eppure a Trump è successo. “Something is rotten in the state of Denmark, come dice Marcello a Orazio nell'”Amleto” di Shakespeare.A questo punto il problema dei limiti della proprietà diventa cruciale. Il liberalismo classico l’ha sempre saputo, tant’è vero che si è sempre battuto contro le pratiche  monopolistiche e, pur ammettendo la proprietà intellettuale, l’ha sempre sottoposta a restrizioni. E’ risaputo che Einaudi amava poco i brevetti. Oggi un libertario di matrice rothbardiana come Kinsella ne mostra l’inconsistenza sul piano teorico, facendo notare, giustamente, che la proprietà si giustifica solo in presenza di beni scarsi, per i quali è necessario un meccanismo di razionamento e distribuzione. Ma le idee non sono beni  scarsi: una volta che un’idea è stata resa pubblica, diventa patrimonio di tutti, ognuno può farne uso senza con questo togliere nulla agli altri. Nel campo delle idee, dunque, un libertario deve essere comunista(*). Il problema però è più a monte: come si acquista legittimamente la proprietà? Qui dobbiamo ritornare a Locke. Nell’interpretazione di Rothbard, i beni naturali sono res nullius, quindi appartengono per diritto di natura a chi se li appropria trasformandoli con il proprio lavoro. Paradossalmente, si ricade nella tanto aborrita teoria marxiana del valore-lavoro, la cui origine Rothbard imputa addirittura a Smith, il padre dell’economia liberale! Nicosia giustamente fa osservare che Locke ammette come legittima l’appropriazione di un bene naturale a patto che se ne riservi agli altri una quota equivalente. Ma se le cose stanno così, i beni naturali non sono res nullius, bensì res communis omnium: il che significa che ogni appropriazione comporta l’obbligo di un risarcimento, nel caso in cui non rimanga per gli altri la disponibilità di un bene dello stesso tipo e della stessa quantità. Il pensiero di Nicosia parte proprio di qui, prospettando, come modello ideale, un assetto in cui sia assicurata a ogni essere umano vivente una quota di rendita derivante dalla messa a frutto di tutti i beni della Terra (non solo quelli naturali,  ma anche i prodotti dell’ingegno umano, come ad esempio il patrimonio artistico) attraverso un sistema generalizzato di Common Trust. Una sorta di “reddito di cittadinanza” universale finanziato da un motore ben diverso dai sistemi fiscali oggi vigenti, che di fatto sono meccanismi estorsivi. Il punto di partenza dovrebbe essere l’imputazione al bilancio pubblico di tutti quei beni, in senso lato demaniali, che di fatto non vengono tenuti in alcun conto perché considerati improduttivi, mentre se fossero valutati secondo le ordinarie procedure di estimo si rivelerebbero dotati di un enorme valore economico intrinseco, un valore che può e deve essere messo a frutto a beneficio della collettività.Se le cose stanno così, si pone il problema: come arrivarci? E’ chiaro che si rende necessaria un’azione politica. Ma un anarchico che si mette in politica, accettando di entrare nell’apparato dello Stato e attenendosi alle sue regole, non si mette in contraddizione con sé stesso? Anch’io l’ho sempre pensato, ma mi si può obiettare che, a questo punto, rimangono solo due possibilità: o la rivoluzione – attuata con mezzi non violenti, se e quando è possibile – o una scelta individualistica in cui ognuno fa parte per sé stesso, cercando di sottrarsi, per quanto può, con tutti i mezzi che ha a disposizione, alle vessazioni dei poteri pubblici. Devo riconoscere che la prima strada è utopistica per troppo di vigore, la seconda sterile per poco di vigore, come direbbe Dante.Nicosia propone allora un partito politico, il cui fine ultimo dovrebbe essere quello di arrivare a una società anarchica fondata su un sistema liberal-socialista che coniuga libero mercato a comunanza di beni pubblici pro quota, messi a frutto tramite catene di Common trusts, in un sistema che per alcuni aspetti potrebbe avere il carattere di quella “Panarchia” di cui è eminente teorico l’amico (così lo considero io, non so come mi consideri lui) Gian Piero de Bellis (molto tempo fa ne abbiamo recensito un bellissimo saggio antologico). Il partito però deve proporre anche un programma minimo, accettando di approvare, attraverso tutti gli organi istituzionali ai quali partecipa, quei provvedimenti normativi che possano considerarsi avviati nella direzione dell’obiettivo finale. Come immagine di un partito anarchico che, preso il potere, sia in grado di costruire una società senza Stato e senza gerarchie coercitive di comando, Nicosia usa la metafora del “dittatore libertario”. Devo ammettere che l’idea mi fa un po’ paura. Molti partiti, nati come eversivi, una volta entrati nel sistema si sono adeguati all’andazzo, diventando come tutti gli altri e condividendone le malefatte. Si pensi, per rimanere a un esempio recentissimo, ai Cinque Stelle e a quello che sono diventati nel giro di pochi anni. Anche i Radicali, che dopo la morte di Pannella si sono ridotti a una cosa obbrobriosa, hanno dato meglio di sé quando erano ancora fuori del Parlamento, come movimento che lottava a livello di società civile. La battaglia per l’introduzione del divorzio nell’ordinamento italiano fu da loro combattuta “dall’esterno”, con un esito che rimane  fra le glorie di cui possono andar fieri. Se non vado errato, David Friedman nel suo saggio “The machinery of freedom” (**) mette proprio in guardia dal pericolo di fondare partiti libertari che, partecipando alla vita politica istituzionale, perdono facilmente la loro verginità (e porta qualche esempio concreto dalla cronaca). Ciò detto, auguro ogni bene al Partito Libertario che Nicosia ha fondato a Roma il 18 ottobre 2020. Ne illustra i princìpi e i programmi, massimo  e minimo, nel suo recente opuscolo “Vademecum del dittatore libertario – Problemi della transizione e programma del Partito Libertario”, pubblicato dalla benemerita casa editrice De Ferrari di Genova. Una lettura stimolante, che consiglio vivamente a tutti gli amanti della libertà. Si può magari dissentirne, in tutto o in parte, ammirandone però il rigore argomentativo, quello che negli scritti di Nicosia non manca mai, unito a una dottrina giuridica di prim’ordine e a un ferratissimo sostrato filosofico. Interessante tutta la parte teorica, che riprende in sintesi temi trattati in opere più poderose. Particolarmente attraenti gli spunti di attualità, con più di una considerazione sui tempi grami che stiamo vivendo. Meritoria l’attenzione alla necessità di salvaguardare quel sistema di piccole e medie imprese e di attività artigianali che sono il fulcro di una società libera fondata sul libero mercato. un tipo di società che i grandi potentati economici, approfittando di una “pandemia” in gran parte inventata, vorrebbero “resettare” (termine orrendo!) per costruire una sorta di capitalismo mondiale  che concentra la proprietà in poche mani sotto l’ombrello uno Stato poliziesco di modello cinese, in nome della Scienza e della Modernità.

Un caro saluto a Fabio Massimo Nicosia!

(*)Anche Michele Boldrin e David K.Levine, nel saggio “Abolire la proprietà intellettuale” , dimostrano che copyright e brevetti, lungi dal favorire l’innovazione, sono un ostacolo alla diffusione di idee nuove, e quindi a un sano sviluppo non soltanto economico.(**) Trad. italiana con il  titolo “L’ingranaggio della libertà”, edita da Liberilibri di Macerata. 

Giovanni Tenorio

Libertino

4 pensieri riguardo “Auguri, Fabio Massimo Nicosia!

  • Alessandro Colla

    Il problema è quale dovrebbe essere lo strumento giuridico per assicurare le eventuali “quote di rendita derivanti dalla messa a frutto di tutti i beni della terra”. Se dovesse essere un obbligo forzato per qualcuno, saremmo punto e da capo con l’imposizione e la rapina fiscale. Tra l’altro occorrerebbe capire chi sia disponibile a mettere a frutto i beni con il proprio lavoro per assicurare le quote agli altri. Valori che “DEVONO essere messi a frutto a beneficio della collettività”? Ecco, quel “devono” e quell’astratta collettività suscitano in me sensazioni analoghe alla paura che si avverte verso l’ossimorica idea del cosiddetto dittatore libertario. Il limite di Locke, la preistoria del liberalismo moderno, è proprio quella contraddizione di dover riservare agli altri una quota equivalente. Se nessuno utilizza una terra vergine di un ettaro, chi dovrebbe obbligarmi a dare mezzo ettaro a un altro? E perché non un quarto di ettaro ad altri tre, un quinto di ettaro ad altri quattro, un decimo di ettaro ad altri nove e via dicendo? Chi stabilisce la distribuzione delle quote e secondo quali criteri? Il criterio del “res communis omnium” sa di imposizione e potrebbe costringermi a cedere a un senza tetto dieci metri quadri della mia abitazione perché in fondo io ne ho venti. O rinunciare alla mia ambizione ad averne sessanta per starci in quattro con la mia compagna e i figli. Dovrei risarcire il citato senza tetto per i miei venti metri? Si risarcisce per un’appropriazione indebita, non per un’appropriazione in sé. Chi dice che se coltivo cento metri mi approprio indebitamente di qualcosa perché non garantisco altri cento metri a un diverso soggetto a cui non va di coltivare né di recintare? Se scrivo una poesia devo garantire ad almeno un altro di esprimersi in versi? Se la pubblico, scatta l’obbligo di pubblicarne almeno una di un altro autore? Qui saremmo nell’alveo della proprietà intellettuale ma se sono editore, sono obbligato a pubblicare “per quote” anche ciò che non ritengo degno di pubblicazione? Se il pubblico viene ad ascoltare le mie sciocche parodie, devo garantire una parte dell’incasso a Michieletto? O sono obbligato a scritturare più attori di quanto necessario? Forse non ho capito bene il senso della proposta ma mi sembra che non poggi su solide basi filosofiche. Il liberalsocialismo (anche quello dei fratelli Rosselli) e il Common Trust non sono mai stati i miei punti di riferimento politico. Posso essere in torto ma non riesco a trovare elementi che possano convincermi di tale torto.

    • Non basta recingere un appezzamento di terreno del quale finora nessuno ha rivendicato la proprietà per divenirne legittimi proprietari. Su questo sono d’accordo anche gli anarco-capitalisti che si rifanno al pensiero di Rothbard. Per acquisirne la proprietà, è necessario “mischiare” alla terra il lavoro. Concetto metafisico. Che cosa vuol dire “mischiare” il lavoro alla terra? Tra l’altro, se il lavoro non ha un valore intrinseco perché il valore dipende dall’utilità marginale (come lo stesso Rothbard sostiene, in polemica non solo con Marx, ma anche con Smith e Ricardo), come si può sostenere che è il valore del lavoro a legittimare la proprietà? Che tutto il ragionamento degli anarco -capitalisti ortodossi sia di natura metafisica è dimostrato dal fatto che Rothbard è fautore della dottrina aristotelica e tomistica del Diritto Naturale. Una posizione coraggiosa e controcorrente: ma dopo Hume dovrebbe essere assodato che non è lecito ricavare il dover essere dall’essere. Allora come possiamo giustificare il diritto di proprietà? Un credente potrebbe anche negare, per il Diritto Naturale coincidente con la Legge Divina, la proprietà del corpo di cui è rivestito, attribuedone la disponibilità, quindi lo jus utendi et abutendi, in cui la proprietà si concreta, soltanto a Dio (di qui la proibizione del suicidio). La soluzione più convincente, a mio parere, è quella suggerita da Bruno Leoni, un pensatore cui si rifà anche Nicosia nel saggio “Beati possidentes” pubblicato da Liberilibri. Il Diritto nascerebbe anch’esso dal mercato, in quanto frutto di pretese contrastanti che trovano la loro composizione in accordi di natura contrattuale. Anche il diritto di proprietà si trarrebbe origine da questa dinamica . Meglio: troverebbe giustificazione in questo modo, se le cose andassero davvero così. Ma siamo nel campo della teoria pura. Perché, nella realtà storica, le cose sono andate diversamente. Gran parte della proprietà oggi legittima ai sensi del diritto positivo vigente è, all’origine, frutto di rapine, non di accordi contrattuali. La proprietà intellettuale, su cui il capitalismo fonda le sue rendite, è ancor oggi, anzi oggi più di ieri, un’enorme rapina garantita dallo Stato. Il colonialismo è stato – e continua ad essere, nelle sue forme attuali – una serie di atti di pirateria. Se una multinazionale, con il beneplacito dello Stato, sfrutta un territorio fino ad oggi rimasto incolto per ricavarne petrolio, ne diviene legittimamente proprietaria per avere “mischiato” il suo lavoro a quel territorio, che la popolazione “primitiva” indigena non aveva saputo sfruttare, perché del petrolio non sapeva che cosa farsene, anzi non sapeva neppure che esistesse nel sottosuolo? Si dirà: come compenso per lo sfruttamento la multinazionale è tenuta a pagare le “royalties”. Vero: ma le “royalties” vanno allo Stato, che molto spesso le dilapida, magari in spese militari. Non è meglio, allora, che le rendite vadano pro quota direttamente agli abitanti? Non sarebbe un sistema di tassazione, ma la corresponsione di una rendita, come il pagamento di un canone di affitto o il versamento degli interessi maturati su un contratto di mutuo.
      Se Nicosia volesse intervenire personalmente per chiarire il suo pensiero, magari tirandomi le orecchie per averlo travisato o riportato grossolanamente, ne sarei altamente onorato.

    • Il dubbio di Alessandro Colla è lo stesso che ho io (e ricordo di averne discusso con lo stesso F.M. Nicosia quando Libertino aveva una corrispondente pagina Facebook, poi chiusa).

      Se il superamento della proprietà privata come concetto etico-giuridico (caro ai paleolibertari) mi convince (e ancora ringrazio Nicosia per avermi eprmesso di andare oltre Rothbard), resta il dobbio di come realizzare il passo successivo che Alessandro Colla definisce lo strumento giuridico per assicurare le eventuali “quote di rendita derivanti dalla messa a frutto di tutti i beni della terra” (aggiungo anche dal consumo di spazio). Non riesco a trovare una riposta in termini giruidici, senza rinnegare l’assoluta necessità di evitare la rifondazione dello Stato. Sono convinto che questo problema si risolva solo attraverso la consapevolezza della constatazione di Nicosia (esistono risorse “comuni”) unita alla disponibilità morale verso la fratellanza tra essere umani, senza bisogno (anzi evitando) qualsiasi tipo di strumento giuridico.

  • Alessandro Colla

    Trovo superata e non ho mai condiviso l’idea che si debba “mischiare” il lavoro con l’appropriazione di una terra libera. Per me recintare è sufficiente se non ho rubato la terra a qualcun altro, anche perché quello della recinzione è già un lavoro. Non devo per forza coltivare o edificare, posso anche dedicarmi alla semplice contemplazione se ho altre risorse sufficienti. E’ vero che molte proprietà non sono legittime perché sottratte a chi ne avrebbe invece avuto diritto e realizzate con rapina in luogo di libero contratto. Ma gli stati non intervengono per limitare il fenomeno, se mai per rafforzarlo o per appropriarsi loro direttamente di quanto spetterebbe ad altri. Condivido in pieno l’idea che le compensazioni dovrebbero andare direttamente nelle mani degli abitanti e non in quelle dei governi ma applicare questo principio significherebbe causare la disoccupazione dei governanti. Chi lo mantiene, poi, Enrico Letta che neanche è al governo? E chi mantiene il tenore di vita dei generali delle forze armate se le compensazioni non vengono dilapidate in azioni belliche? La vera rivoluzione consiste nell’eliminazione del “beneplacito dello stato”, ossia l’abolizione dello stato. Per arrivarci occorre prima abolire una cosa peggiore dello stato: la scuola di stato.

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