Don Giovanni

Il solito noioso temino

Francesco Alberoni – il sociologo formatosi negli anni ruggenti delll’Università di Trento, divenuto popolare con i suoi saggi, masticati e rimasticati, dello “statu nascenti” e dell’ “innamoramento e amore”, continua a imperversare. Come forse abbiamo già detto – tutti abbiamo il vizietto di rimasticare il già masticato – è paradossale che oggi, dopo aver deliziato per anni i lettori del “Corriere della sera” con i suoi “temini” pieni di banalità, da studentello di Liceo un po’ saccente e pieno di sé, continui il suo giochetto sulle pagine del “Giornale”: quel “Giornale” il cui fondatore e allora direttore Indro Montanelli ebbe una volta a chiedersi, alludendo proprio a lui, come sia possibile assegnare una cattedra universitaria a certi personaggi. Un tempo io quei “temini” li leggevo, per divertirmi; poi decisi di non più degnarli neppure d’uno sguardo. Ma qualche giorno fa non ho saputo resistere. il “temino”  (la definizione non è mia, ma del linguista Raffaele Simone) era piuttosto corto; al massimo, per leggerlo, avrei perso solo qualche minuto, e forse mi avrebbe risollevato l’animo come un’innocente barzelletta. Sotto sotto, nutrivo anche la speranza che il passar degli anni avesse giovato alla profondità intellettuale dell’illustre sociologo, benché sia vero che non sempre la vecchiaia rende saggi; talvolta rimbambisce ancor di più, specialmente oggi che i progressi della medicina hanno allungato la vita media, ma sono ben lontani dal saper ridonare il vigore della giovinezza a chi giovane non è più, e soprattutto dal saper mantenere in piena efficienza le capacità mentali di chi ha vissuto molte primavere. Che disastro, amici miei! Siamo peggiorati, di gran lunga peggiorati. Una volta, per lo meno, quando il Nostro esponeva con sussiego le sue banalità da bar, si poteva anche essere d’accordo con lui, nel modo in cui si può essere d’accordo con chi ripete come grande novità quanto rientra nel senso comune, pacificamente accettato senza obiezioni anche dal primo che passa per la strada. Se si sta sul generico e sull’ovvio, difficile mettersi a litigare. Di solito al bar si litiga quando si parla di calcio. Qualche volta quando si parla di politica. Non quando si dice che fa troppo caldo, da tempo non piove, e sarebbe bene che arrivasse qualche bel temporale a rinfrescare l’aria; o che non ci sono più le mezze stagioni. Adesso, invece, il Nostro ci propina fanfaluche grandi come una casa.

La sua tesi è questa: se ci fosse il “federalismo” , l’emergenza sanitaria sarebbe stata affrontata molto meglio di come s’è fatto. Prima obiezione (anche qui mi limito a rimasticare il già detto). Si continua a parlare di federalismo come di un processo di decentramento politico, mentre è esattamente il contrario, se è vero che, nella Storia degli Stati Uniti, “Federalisti” erano chiamati quelli che volevano riconoscere al governo centrale poteri più forti. Lo stesso si dica della Svizzera, che pur continuando a chiamarsi “Confederazione”, com’era di fatto una volta”, è diventata una federazione dopo la metà dell’Ottocento, conferendo al governo di Berna poteri che prima non aveva. Non si è mai visto uno Stato accentrato diventare una federazione. O si arriva all’ “autonomia regionale”, come nel bruttissimo modello italiano, o si va dritti alla secessione. Tertium non datur. Quindi si rassegni Alberoni, che rimpiange il buon Carlo Cattaneo. L’Italia è nata contro il modello auspicato dal geniale pensatore milanese avverso alla soluzione unitaria e sabauda, ricalcando invece quello della Francia  napoleonica, centralistica e prefettizia. Il moderato decentramento previsto dal progetto Cavour-Farini- Minghetti, che proponeva un’Italia divisa amministrativamente in poche macro-regioni, fu ben presto affossato quando, subito dopo l’Unità, si manifestarono tendenze separatiste, culminate in quello che sbrigativamente venne chiamato “brigantaggio” e represso con brutali operazioni militari. Il decentramento regionale prescritto dalla costituzione più bella del mondo è arrivato tardi, tra l’opposizione dei liberali (quattro gatti), lo scarso entusiasmo dei cattolici (che pur al tempo della Costituente ne erano tenaci fautori), il pieno favore di repubblicani e socialisti e le speranze dei comunisti, sicuri di una prossima loro egemonia  nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale. Ne è venuto fuori un pastrocchio, aggravato dalle successive riforme e controriforme. Peccato originale: aver mantenuto il sistema prefettizio, che con l’idea di decentramento fa a pugni, come il diavolo con l’acqua santa. I veri “federalisti” (usando il termine in senso improprio, come sinonimo di decentratori) vedevano i prefetti come il fumo negli occhi. “Via il prefetto!”  è il titolo di un articolo di Luigi Einaudi, se non sbaglio del 1947. Proponeva di ridisegnare il modello istituzionale  italiano  a partire dalla formazione  di comunità locali capaci di articolarsi intorno a interessi condivisi, ad esempio  a particolari rapporti economici, rappresentati da fiere e mercati, ma non solo; e dall’aggregazione di tali comunità entro organismi territoriali più ampi, non necessariamente corrispondenti alle regioni storiche. Bel sogno! Per tradurlo in atto si sarebbe dovuto distruggere dalle radici l’ordinamento politico italiano nato dall’estensione del centralismo piemontese a tutta la penisola. Un miracolo più incredibile della risurrezione di Cristo. Seconda obiezione. Non vede, il professor Alberoni, che il federalismo, come lui lo intende, in questi mesi di emergenza le regioni se lo sono inventato da sé, procedendo in maniera che gli stolti chiamerebbero anarchica, mentre è soltanto anomica, cioè priva di regole, anzi addirittura contraria alle regole? Il federalismo degli sfigati. I vari presidenti delle regioni si sono sentiti più che mai “governatori”, usurpando un termine che compete a chi regge i diversi territori degli ordinamenti autenticamente federali, come quello degli Stati Uniti. Se il governo centrale ha calpestato brutalmente la Costituzione, inventandosi un “potere di ordinanza” legittimato a comprimere le libertà inviolabili  fino al punto di condannare i cittadini-sudditi all’arresto domiciliare senza aver commesso alcun reato, i sedicenti “governatori”si sono spesso spinti a prescrivere misure ancora più severe, emanando le ordinanze più bislacche e dimenticando, o fingendo di dimenticare (se mai l’hanno saputo) che la profilassi internazionale – e quello della pandemia Covid19 è un caso da manuale – nell’ordinamento costituzionale italiano spetta allo Stato, cioè al governo centrale. Siamo addirittura al delirio: regioni che pretendono di chiudere i loro confini impedendo l’ingresso ad altri cittadini italiani per timore che portino nuove infezioni; “governatori” che vorrebbero imporre un “passaporto sanitario” per i visitatori che arrivano dalle regioni più contagiate, o presunte tali; ordinanze regionali che introducono vaccinazioni obbligatorie, oltre a quelle già prescritte dalla legge dello Stato, dimenticando, ancora una volta, che nessun trattamento sanitario può essere imposto contro la volontà del paziente, se non con riserva di legge. Fascistelli al governo nazionale e fascistelli ai governi locali. Si salvi chi può. In un sistema federale si sarebbe fatto meglio? Difficile essere più fascisti di così, ma tutto è possibile. Tra l’altro, tutta questa repressione non pare abbia portato a risultati molto migliori di quelli che vediamo raggiunti in atri Paesi, dove le libertà dei cittadini sono state limitate in misura molto più ridotta. Si veda come le cose sono andate in Svizzera e nella Germania della tanto vituperata, antipatica quanto si vuole, ma intelligente Angela Merkel.

Il momento più esilarante del “temino” di Alberoni arriva alla fine, laddove si dice che, in un regime federale, come l’intende lui, ogni territorio marittimo potrebbe difendere da sé le proprie coste ed evitare di vendere i porti a potenze straniere. Il riferimento è alla politica di questo governo criminale che, cedendo alle lusinghe della “Via della seta”, e facendo stizzire con qualche ragione, Trump, ha stretto accordi commerciali con la Cina con il rischio di doverle cedere, prima o poi, i porti e altre strutture logistiche di capitale importanza. Questa è bella! In un sistema federale, qual è quello degli Stati Uniti, la politica estera, il commercio estero, la difesa, i porti, le coste, i confini rientrano nella competenza del governo centrale. Non sarà certo un Toti qualsiasi,  in una fantomatica Italia federale, a decidere se vendere o no ai cinesi il porto di Genova, o magari estendere le acque territoriali della Liguria. Aveva ragione il non mai abbastanza rimpianto Montanelli: chi ha assegnato una cattedra universitaria a certi personaggi?

Un inaspettato sostegno alla tesi, da sempre qui sostenuta, secondo cui la secessione non solo non è un viatico per una maggiore libertà, ma in alcuni casi potrebbe portare a un’oppressione anche peggiore, è il bell’articolo or ora pubblicato su “Center of stateless society -Enrico Sanna”, dal titolo “Secessione o autonomia?” di Darian Worden. Se i libertari italioti di matrice vetero-leghista, adoratori di Gianfranco Miglio, e alcuni illustri professori del loro seguito di cui preferisco non fare il nome mi leggessero, li inviterei caldamente ad andarselo a cercare e a meditarlo.  

Giovanni Tenorio

Libertino