Don Giovanni

Il bufago

Cari amici, confesso la mia ignoranza in zoologia. Leporello, che in questi ultimi tempi, come avrete visto dai suoi succosi interventi, ha studiato come un matto e su molti argomenti ne sa più di me, forse mi bagna il naso anche in questo campo. Mi dirà lui se sa che cos’è il bufago. Voi lo sapete? Io l’ho imparato solo qualche giorno fa, e non certo leggendo un libro di storia naturale, ma – non vi paia strano- un saggio di… sociologia! Proprio così.

Dovete dunque sapere, se già non ne avete contezza, che il bufago (con l’accento sulla u: bùfago; anche femminile: bùfaga) è un uccello degli Sturnidi, il quale vive da parassita cibandosi degli insetti annidati nella pelle degli ippopotami. L’autore, Luca Ricolfi, del bellissimo saggio di cui vi parlo, intitolato “La società signorile di massa”, se ne serve come metafora per spiegare quanto avviene nelle cosiddette società signorili (ad esempio nel Medioevo feudale), dove una classe dominante (ristretta) vive alle spalle di una classe di lavoratori ad essa assoggettata, estraendo, senza lavorare, il surplus della ricchezza da questa prodotta. A ben vedere (e anche Ricolfi ne fa cenno) la fin troppo decantata democrazia dell’antica Atene si reggeva su un sistema non dissimile. I cittadini erano un’oligarchia molto allargata, le cui classi più basse lavoravano sodo, quelle più alte avevano il tempo per dedicarsi  a impegni più gratificanti (non ultima l’attività politica), ma tutti estraevano  gran parte dei loro redditi dal lavoro degli schiavi, il cui numero, su una popolazione di 30.00 persone libere, era almeno dieci volte tanto. Così andavano le cose nei tempi passati, più o meno lontani. Erano società per molti altri aspetti  assai diverse tra loro, ma con un carattere comune: l’esiguità della classe dominante parassitaria rispetto al gran numero degli appartenenti classe servile. Oggi invece, almeno in Italia – ma anche in altri Paesi si sta avverando qualcosa di simile – la situazione si è capovolta: a fronte di una classe parassitaria molto numerosa (superiore al 50% della popolazione totale) si pone un esercito di paraschiavi non certo esiguo, ma minoritario. Da chi è formata questa classe parassitaria? Da tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, non lavorano. Ecco perché si può parlare di “società signorile di massa”. Ricolfi spiega bene quali sono le cause che hanno condotto a un simile risultato. Non è il caso qui di ripeterle tutte. Mi pare che abbia un peso non indifferente il decadimento della scuola – un tema, questo, su cui ha pubblicato un saggio tagliente anche Ernesto Galli della Loggia, “L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola”. L’aver abbassato il livello degli studi, dalla scuola dell’obbligo  all’Università, ha prodotto una caterva di diplomati e di laureati piuttosto ignoranti, che aspirano a posti di un certo livello ma, rimanendo frustrati nella loro ricerca, non vogliono adattarsi a svolgere attività che considerano inadeguate al titolo di studio conseguito, e per questo si astengono da ogni impegno lavorativo, contando sul sostegno finanziario delle loro famiglie. Sono i cosiddetti NEET (“neither in employment nor in education: quelli che né lavorano né studiano), in nessun Paese  così’ numerosi come in Italia. Ma da dove vengono le risorse da cui si attinge per mantenere tutti questi nullafacenti? Dal patrimonio che i padri e i nonni hanno accumulato negli anni d’oro del secondo dopoguerra, il periodo che va, grosso modo, dal 1947 al 1964, quello in cui l’Italia, sia pur con forti squilibri, specie fra Nord e Sud, è diventata un Paese industriale moderno, lasciandosi alle spalle secoli di povertà diffusa. Poi qualcosa si rompe, nella crescita virtuosa. Mentre prima il patrimonio delle famiglie era modesto, anche a causa della stabilità monetaria e del basso valore degli immobili, da quel momento il valore dei beni patrimoniali comincia a crescere: i prezzi degli immobili si impennano, e la crescita del debito pubblico offre al risparmio delle famiglie uno strumento per aumentare il patrimonio costituito dai titoli di Stato, ricavandone lucrosi interessi. Il combinato disposto di questo “tesoretto” e di una riserva di manodopera semischiavile, cui affidare, in cambio di compensi da fame, i lavori più pesanti e meno gratificanti che i privilegiati rifiutano, consente a questo sistema perverso di mantenersi in vita. Fin quando? Fino al momento in cui il “tesoretto” si sarà esaurito. In teoria, potrebbe conservarsi, a patto che si esca da una stagnazione che, a partire dall’ultima crisi mondiale, quella successiva al fallimento della Lehman Brothers, l’Italia non è ancora riuscita a superare; e che potrà superare a fatica, visto che la produttività è a sua volta stagnante almeno dagli anni Novanta dello scorso secolo, mentre negli altri Paesi è in continuo miglioramento. Questo significa che, in un prossimo futuro, si andrà incontro necessariamente a una decrescita. Se sarà felice, lo diranno i diretti interessati.

Ho semplificato molto, e potrei anche aver travisato, in qualche punto, il pensiero dell’Autore, che ha il raro pregio di scrivere benissimo, in un linguaggio insieme elegante e accessibile, anche quando il discorso diventa strettamente tecnico. Consiglio vivamente a tutti i miei amici la lettura del bel saggio. Io qui vorrei trarne qualche conclusione tutta mia, che probabilmente Ricolfi – uomo di sinistra, ma di lucidissima intelligenza e per nulla schiavo di pregiudizi – certamente non condividerebbe. In poche parole: penso che una società perversa come quella da lui descritta sia il frutto di uno Stato, come quello italiano, che dello Stato astrattamente inteso ha esasperato gli aspetti peggiori. La scuola pubblica è in crisi un po’ dappertutto, ma in Italia è allo sfacelo, se è vero che all’Università i professori, nelle tesi degli studenti, sono ridotti  spesso a correggere non il pensiero argomentativo, ma l’ortografia (è Ricolfi stesso ad attestarlo, per esperienza diretta). Il debito pubblico ha ormai raggiunto cifre astronomiche. Il sistema pensionistico potrà reggere ancora per poco, anche perché il numero dei pensionati cresce sempre di più rispetto a quello dei lavoratori, soprattutto a causa del calo demografico. Ricolfi pone tra i parassiti anche i titolari di rendite che evadono il fisco per salvaguardare i loro patrimoni, soprattutto nel Sud. Io qui farei una distinzione. Chi da un lato evade e dall’altro approfitta, attraverso certificazioni false, di tutti i benefici che lo Stato concede a chi è in difficoltà (o presunto tale), è un essere abietto. Chi è costretto a ricorrere al lavoro nero perché altrimenti dovrebbe chiudere bottega e lasciare sul lastrico i suoi operai, merita comprensione, anche da parte di chi è ben lungi dal dichiararsi anarchico. Io metterei piuttosto nel rango dei parassiti tutti quei dipendenti pubblici che, in un sistema privo di strutture politiche gerarchiche e imperative, non avrebbero ragione di esistere. E’ sempre Ricolfi a sottolineare che il calo della produttività è dovuto, in gran parte, a una burocrazia divenuta più farraginosa e più oppressiva dopo la famigerata “riforma Bassanini”, che con il pretesto del decentramento ha di fatto moltiplicato gli organi decisionali, rendendo più lente e più complesse, oltreché più costose, le procedure per ottenere permessi d’ogni genere. Tutti questi burocrati, dico io, sono o non sono parassiti, mantenuti non dal “tesoretto” dei loro familiari, ma direttamente dai contribuenti? Io li vedrei volentieri a svolgere quei lavori che, attualmente, sono affidati alla manodopera semischiavile: pulire cessi, lavorare in miniera, svolgere lavori di manovalanza nei cantieri edili, e via di seguito. Forse prima o poi finiranno proprio così.

Qualche tempo fa mi trovavo, con un mio amico, di passaggio in una località della quale permettetemi di tacere il nome (non vorrei offenderne gli abitanti, che oltretutto mi sono simpatici). Mentre camminavamo lungo un bellissimo viale, nel quartiere più bello della città, l’amico mi disse. “Questo sì è un luogo beato! Vedi? Sono tutti impiegati pubblici, alcuni di alto livello. Qui la povertà non si vede, stanno tutti bene e possono permettersi di vivere da signori”. Gli risposi: “Vero. Fin che dura. Fin che c’è qualcuno che lavora per loro. Ma una volta che i parassiti avranno ucciso la bestia, moriranno anch’essi. Mi dispiace moltissimo per la bestia, per i parassiti no”.

Un’ultima riflessione. Gran parte della minoranza schiavile è formata da immigrati. Sono quelli che raccolgono pomodori, arance o olive, per pochi euro all’ora, in condizioni di lavoro disumane. Una vergogna, di cui ogni tanto si parla, poi si passa oltre perché “i problemi sono ben altri”. Un Paese civile non dovrebbe tollerare un simile sconcio. Io non credo che chi predica l’accoglienza a braccia aperte sia l’ingranaggio consapevole di un disegno perverso che intende fornire manodopera a buon mercato a un capitalismo di rapina. Credo però che, di fatto, a dispetto di tutte le buone intenzioni umanitarie, il risultato sia questo. Ho sempre deprecato – chi mi legge dovrebbe saperlo bene – la politica di Salvini, ma quando il capo della Lega dice che l’accoglienza indiscriminata riduce le persone in schiavitù non è lontano dal vero. Sempre Ricolfi fornisce il numero delle prostitute che lavorano in Italia: più della metà sono straniere. Sono finite sulla strada ad opera di sfruttatori: il loro sogno non era certo questo. Voi sapete che io non ho niente contro la prostituzione. L’ho detto più di una volta. A un patto: che sia una scelta libera. Chi offre liberamente sesso a pagamento offre un servizio. Chi vuole usufruirne dev’essere a sua volta libero di farlo. Chi però va con una prostituta, magari immigrata clandestina, sapendo che è schiava di un magnaccia e vive in condizioni disumane dovrebbe arrossire di vergogna fino alla punta dei capelli. Quando la bestia morrà, saranno forse le mogli e le fidanzate di chi oggi se la spassa a spese del contribuente ad andare a battere i marciapiedi. 

Giovanni Tenorio

Libertino

7 pensieri riguardo “Il bufago

  • Mai sentito nominare questo Bufago. Ho dovuto approfondire grazie Google e mi sembra che il paragone di Ricolfi sia doppiamente calzante, visto che per anni si è tentato di trovare nell’opportunismo di questo uccello una forma di utilità per gli ippopotami, invece sembra essere un parassita come lo sono zecche e pulci. Un po’ come lo Stato (e i suoi opportunisti): non è utile ma fastidisoso, è fastidioso e basta.

    Tutto l’articolo sarebbe da incorniciare. Mi limito a sottolineare la parte relativa alla scuola. L’esperienza quotidiana con la scuola attuale mi permette di vedere gli effetti più recenti della degenerazione: programmi non svolti (dati per compito a casa, casomai), fino a 8 maestre per una classe di 24 bambini, aumento incontrollato dei collaboratori esterni e presenza di avvoltoi di vario tipo intorno ai bambini: un enorme contenitore sociale, erogatore di stipendi e finanziamenti. Tra qualche anno vedremo cosa succederà alle medie e alle superiori.

    Io non penso che la colpa sia della scuola, che non è causa ma prodotto, ma della democrazia che, per definizione e meccanica di funzionamento, premia sempre una maggioranza liquida (non sempre e non più identificabile in un partito o una ideologia specifici) e parassita ai danni della minoranza produttiva, che è produttiva in quanto minoranza (quindi schiavizzata) e minoranza in quanto produttiva. Infatti, se un individuo appartenente alla minoranza smettesse di essere produttivo (in senso lato: la produttività non coincide con la firma di un contratto nazionale del lavoro di qualche categoria), avrebbe immediatamente interessi convergenti con gli individui della maggioranza.

    Lo Stato è l’ideologia (con tratti quasi di religione, culto incluso) che anestetizza le tentazioni eversive della minoranza, essendo gli schiavi consapevoli una minoranza nella minoranza. Lo Stato opera coltivando delle enormi distorsioni cognitive usando, come strumento, anche la scuola pubblica (intesa come Statale e Paritaria, ovvero finanziata dallo Stato ma gestita dalla Chiesa).

  • Alessandro Colla

    Aggiungerei una considerazione al pensiero di Ricolfi. I titolari di rendite, quando evadono il fisco utilizzano il frutto dell’evasione in consumi. O in risparmi, grazie ai quali gli istituti finanziari possono erogare prestiti. Se poi quelle rendite sono illegittime perché frutto di rapina o di legislazione mercantilistica, allora il problema non è l’evasione fiscale ma l’illiceità della rendita stessa. Che è garantita da politiche stataliste.

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  • Sì, però il bufago – di cui ignoravo il nome, non l’esistenza – svolge un lavoro utile, trattatasi di simbiosi, un mutuo accordo che i libertari dovrebbero gradire.

    I veri parassiti sono gli insetti, i pidocchi e le zecche di cui si nutre l’animaletto e infatti il rino si guarda bene dallo scrollarselo di dosso.

    Similmente fanno gli uccelli che puliscono i denti evitandone potenziali infezioni ai coccodrilli, che volentieri spalancano loro la bocca per la loro igiene orale, rispettandoli e non facendone mai boccone.

    • l’ippo, non il rino.

    • No invece, anche il rino, ricordavo bene (sono andato pure io su wiki, che di solito evito, se posso).

      Quanto al fatto che anche il bufago sia un parassita… forse, ma un male minore.

      Io che sono un appassionato di documentari – specie quelli sulle savane africane e ne ho visti a tonnellate – mai una volta ho visto scrollarsi di dosso questi animaletti da parte degli ospitanti, che se li portano in giro tranquillamente, mentre i bagni di fango contro gli insetti, di quelli ne fanno eccome.

      E contra facta non valent argumenta.

    • Onestamente Ricolfi ammette di non saper dire se l’ippopotamo accetti con piacere l’operato del Bufago. Si può immaginare di sì. D’altra parte, la sua è soltanto una metafora. Rimane vero che la stragrande maggioranza dei cittadini d’ogni contrada del mondo accetta, se non con piacere, almeno con rassegnazione, pensando sia un male necessario per evitare il “bellum omnium contra omnes”, il parassitismo dello Stato. Sia chiaro che questa è una riflessione mia, non di Ricolfi; dal quale ho preso lo spunto per giungere a conclusioni diverse. Per lui la degenerazione di cui offre un quadro tanto rigoroso quanto inquietante, è frutto di malgoverno; per me dello Stato in quanto tale, anche se, in altri contesti, la “società signorile di massa” o è meno accentuata o del tutto assente (il caso più significativo è quello dello Stato d’Israele, dove non si rileva alcun sintomo di tale patologia). Qualcuno potrebbe obiettarmi che sto cadendo in contraddizione, perché se altrove lo Stato non degenera, le cause del male italiano ( rendite derivanti da un debito pubblico in costante espansione; abbassamento dell’età pensionabile per alcune categorie privilegiate; scadimento del sistema scolastico, assenza di una seria politica dell’immigrazione) vanno piuttosto imputate ai governi che, da un certo momento in avanti, si sono susseguiti alla guida del Paese. Vero: ma senza un’autorità statale che, forte del proprio monopolio della violenza, manipola il mercato, introduce norme distorsive e protegge i privilegiati nessuna società signorile, di nessun genere, né di minoranza né di massa, si potrebbe formare.

  • Alessandro Colla

    Mica è vero che non ci sia la degenerazione dello stato nelle altre realtà geografiche. C’è stato un periodo anche in Israele di sia pur breve coscrizione obbligatoria. Se poi in medio oriente scoppiasse la pace, i burocrati israeliani avrebbero motivi per degenerare. Dappertutto lo stato degenera. In Italia e in Grecia va un po’ peggio e la vera colpa dei governi e dei parlamenti è quella di espandere il potere statale. Anche negli Stati Uniti la situazione è degenerata. Non solo per le ingerenze del potere federale sui singoli stati ma anche per l’ingerenza di questi ultimi sulle contee, sulle città, sui villaggi e su gli individui. L’Italia rimane peggiore, non c’è dubbio, ma perché ha più stato. Non per peggiori governi; poiché quando questi sono tali, lo sono per conseguenza.

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