Don Giovanni

Reagan e Thatcher, due santini da bruciare (ma Trump è peggiore).

“Anche di Reagan, durante la campagna elettorale, si diceva male, ma poi si rivelò uno dei migliori presidenti del dopoguerra”. E’ una frase che in questi giorni abbiamo sentito più volte ripetere a proposito delle sorprese che Trump potrebbe riservarci. Sembra sensata, invece è doppiamente falsa. Innanzitutto, Reagan non era soltanto un ex-attore di secondo o terzo rango, che aveva recitato in filmetti di cassetta vestito da cow-boy col cappellaccio in testa; aveva lavorato come dirigente nel sindacato degli artisti cinematografici e aveva sulle spalle l’esperienza di governatore della California, uno dei più importanti Stati dell’Unione. Non era il riccone che, per difendere i suoi interessi, scendeva nell’arena politica pensando stoltamente che si potesse governare un Paese allo stesso modo in cui si dirige un’impresa (come pretendeva di fare anche Berlusconi, rimanendo ben presto disilluso). In secondo luogo, Reagan non fu affatto un buon presidente. Dopo i primi suoi atti di governo, stranamente anche la stampa liberal, “New York Times” e “Washington Post” in testa, che lo aveva duramente avversato, pur non rinunciando a critiche, anche severe, verso specifici provvedimenti presidenziali, cominciò a trattarlo con rispetto, non lesinandogli giudizi positivi. Condizionati dal fatto che proprio alla fine del suo secondo mandato ebbe inizio il crollo dell’Unione Sovietica – la cui implosione, si diceva, era dovuta anche all’impossibilità di sostenere la spesa militare necessaria per far fronte all’apparato bellico americano – i liberali e molti sedicenti libertari ne fecero un’icona, insieme con Margareth Thatcher. Due santini da bruciare.

La Thatcher fu, tutto sommato , una moderata (come riconosce il suo amico Antonio Martino). Diceva e ripeteva una sciocchezza che molti accoglievano compiaciuti: “La società non esiste, esistono gli individui”. Sarebbe come dire che non esistono grammatica e sintassi, ma solo parole. Oppure, che non esiste il mercato, ma solo venditori e compratori. Ebbe il merito di dare un certo scrollone a un sistema produttivo ormai in coma, prendendo di petto le Trade Unions nelle loro rivendicazioni di retroguardia (“un tempo gli oppressi, oggi gli oppressori” aveva già detto Keynes in tempi non sospetti) e avviando alcune benefiche privatizzazioni. Ma non smantellò affatto quel Welfare che aveva come padre nobile il britannico Beveridge, e alla fine scivolò sulla Poll Tax. Una statalista, in somma, che non esitò a sfruttare a proprio vantaggio gli spiriti patriottici attizzati dalla questione delle Falkland, quattro scogli improduttivi al largo delle estreme coste sudamericane, conquistati nel 1833 con un colpo di mano, popolati da un pugno di sudditi di Sua Maestà la Regina Elisabetta II e in quel momento rivendicati pretestuosamente dal governo argentino. Meglio di Reagan, in ogni caso, cui si attribuisce il merito di aver abbassato drasticamente l’imposizione fiscale in omaggio alle Supply Side Economics propugnate da Arthur Laffer, stimolando così la ripresa del sistema produttivo, col risultato di un consistente aumento del PIL. In realtà, molti dei provvedimenti in materia economica che diedero il loro frutto nei primi tempi del mandato di Reagan erano stati introdotti dal tanto bistrattato Jimmy Carter. Per il resto, Reagan aumentò, anziché diminuire, la pressione fiscale, e rafforzò le misure di Welfare,anziché smantellarle. Altro che Supply Side, la sua fu di fatto una politica keynesiana, con velleità redistributive. Anche lui era stato osannato dai liberali e sedicenti libertari per una frase a effetto: “Lo Stato non è la soluzione dei problemi, è esso stesso il problema”. Giustissimo. Peccato che sotto il suo governo lo Stato si sia rafforzato, la burocrazia si sia complicata, alla FED sia stato nominato Alan Greespan “libertario randiano” responsabile in gran parte dei futuri disastri monetari e finanziari, la spesa militare si sia gonfiata e alla fine il debito pubblico abbia raggiunto livelli stratosferici. Murray N. Rothbard, in un feroce articolo fece una vera e propria autopsia di Reagan, bollandolo come un idiota. Ne salvò soltanto, sarcasticamente, l’abolizione del limite di velocità sulle autostrade. Forse è un po’ ingeneroso. Quando sfidò il ricatto dei controllori di volo in sciopero, non esitando a trarre in arresto alcuni dei loro capi, Reagan si mostrò all’altezza della situazione, come La Thatcher con i sindacati dei minatori. Un po’ pochino, a dire il vero. La politica estera fu piuttosto disastrosa. L’avventura di Grenada, salutata dai soliti liberali e sedicenti libertari come un momento glorioso e una battaglia di libertà, è ancor più squallida della guerra delle Falkland. Il tentativo di uccidere Gheddafi, dove a perdere la vita fu la figlia del dittatore, il quale invece riuscì a scamparla, è semplicemente deplorevole, anzi addirittura criminale. E il famoso incontro con Gorbaciov a Reykiavik nell’ottonbre del 1986? Altro mito da sfatare. Si dice che in quell’occasione si arrivò molto vicini all’eliminazione di tutti gli armamenti nucleari. Ma la montagna non partorì neppure il topolino: nulla di nulla.

Se il modello è questo, da Trump c’è ben poco da sperare. Il guaio è che, probabilmente, sarà peggio, molto peggio, perché, a quanto pare, ha tutta l’intenzione di mettere in atto le smargiassate con cui, durante la campagna elettorale, mandava in visibilio il suo pubblico osannante. Parlava di costruire un muro per bloccare l’immigrazione dal Messico? Subito fatto, con la pretesa, in aggiunta, che sia il Messico a pagarlo! Sarebbe come se io recingessi con un muraglione una mia proprietà, per impedire che i gatti del mio confinante vengano a cacare nel mio giardino, e poi pretendessi che fosse il mio confinante a pagarmi le spese! Tra l’altro, dei lavoratori messicani, clandestini o no, gli USA hanno più che mai bisogno, perché anche là, a dispetto dei tassi di disoccupazione, sempre positivi, certi lavori non li vuol fare più nessuno. Un po’ come capita per la Svizzera: tanto clamore contro l’invasione degli stranieri, ma poi se davvero si riuscisse, con un referendum, a rigettarli oltre confine, in Elvezia le fabbriche resterebbero senza manodopera e i cessi pubblici esalerebbero i più soavi olezzi. Parlava di protezionismo, facendo gongolare di gioia i Salvini, i Tremonti, gli Indipendentisti (America first, el Veneto prima de tuto, ostrega!) e sta già provvedendo a salvaguardare certi comparti dell’industria nazionale con dazi doganali e incentivi fiscali. Marchionne, che qualche settimana fa si è visto arrivare sul collo la tegola dell’EPA contro le presunte anomalie dei motori Diesel FCA in spregio alle normative vigenti, gli si sta già accucciando ai piedi come un cagnolino: state pur certi che, se si chiuderà un occhio, o magari due, sulle irregolarità delle emissioni, e gli si andrà incontro con qualche misura di defiscalizzazione, non delocalizzerà. L’acciaio americano sarà protetto, così le imprese che se ne serviranno come materia prima lo pagheranno di più e saranno meno competitive. Saranno protette anche quelle? I lavoratori delle imprese protette faranno festa, ma i consumatori ne pagheranno più cari i prodotti. Visto che tout se tient, se non passano le merci straniere non devono passare neanche gli stranieri, e il discorso non vale solo per i messicani che son lì a due passi. Vale per tutti. Anzi, come ci sono merci più pericolose, così ci sono stranieri più pericolosi. E’ la mentalità della Svizzera: pazienza per gli italiani del Nord, ma i terroni proprio no, ritornino nelle loro caverne. E allora , se uno appartiene a un popolo pericoloso non entra per nessun motivo, neppure se ha il cervello di un Einstein. E’ una guerra! Quelli invadono l’America, con le loro merci e i loro uomini, e l’America si difende. Difende innanzitutto la sua civiltà, prima di tutto l’uso della tortura nei procedimenti polizieschi contro i presunti terroristi. Funziona, e allora perché privarsene? Alla faccia di Verri e di Beccaria. E a chi protesta e magari brucia la bandiera, giù botte!

Ecco il bel paradiso che il Presidente eletto dal Popolo sta preparando per il Popolo. Anche i Salvini e i Tremonti e magari i Fratellini d’Italia e tutti i fascistelli di tutte le parti politiche, non esclusi i sedicenti libertari amici del compianto Gianfranco Miglio presto si accorgeranno che quel paradiso arriverà anche in Europa, anche alle itale sponde. E’ notizia di questi giorni che l’industria lariana potrebbe subire pesanti conseguenze dai dazi americani sui prodotti tessili d’importazione. L’avete voluto? Vostro danno! Sono i frutti dell’autarchia. Ecco quel che succede a mettersi sulla scia dei no global.

Se Trump vuol perseverare in una politica di chiusura come questa, farebbe bene a impacchettare la Statua della Libertà e rispedirla in Francia: dopo tutto, anche quella è roba estera. Inoltre, sul suo piedistallo, sono riportati i versi di una poesia in cui in cui si invitano i poveri e i diseredati di tutto il mondo ad accorrere fra le sue braccia. Basta! I tempi sono cambiati!
Devo quest’ultima. amara deduzione a David Friedman, che in un capitolo del suo saggio “The machinery of freedom” già lamentava un’eccessiva restrizione dell’accoglienza agli stranieri negli USA, in contrasto con una tradizione di generosa apertura, economicamente fertile. Certo Friedman non avrebbe mai immaginato, quando scriveva quelle pagine, che si sarebbe arrivati a un tal punto di disumana stupidità.

Giovanni Tenorio

Libertino