Don Giovanni

Finiam le ragazzate

Il parco della mia villa è molto esteso: sono ricco e non mi vergogno di esserlo. A mio modo sono anche generoso. I cancelli sono sempre aperti: chi vuole entrare, è libero di farlo. Certo, se colgo qualcuno che getta cartacce o mozziconi a terra, o inzacchera le panchine, o calpesta le aiuole, non esito a prenderlo per un orecchio e a cacciarlo fuori, inibendogli da quel momento l’ingresso nelle mie proprietà. Uno se vuole può anche portarsi da mangiare: ho sistemato, sotto possenti querce ombrose, un buon numero di tavolini di pietra, con tanto di comodi sedili corredati di cuscini. Lì ci si può sedere a mangiare tranquillamente. A un patto: che si gettino i rifiuti della consumazione negli appositi cestini, che sono numerosi e a portata di mano. Leporello fa buona guardia: se coglie sul fatto qualche maleducato non soltanto lo piglia per un orecchio, può anche capitare che lo faccia filar fuori a furia di pedate nel deretano.
Nel mezzo del parco c’è anche un chioschetto dove si vendono bibite e cibarie. E’ gestito da una gran brava persona, che qualche tempo fa perse il posto di cameriere in un ristorante andato in fallimento. Venne da me disperato e mi chiese se potevo aiutarlo. Gli proposi l’esclusiva della ristorazione all’interno del mio parco, a beneficio dei visitatori. Due le condizioni: che mantenesse la più rigorosa pulizia dentro il chiosco e nelle immediate vicinanze; che non approfittasse del privilegio accordatogli per imporre ai clienti prezzi esorbitanti. I patti sono sempre stati rispettati, con grande soddisfazione mia, sua e degli avventori.
Un giorno entrò nel mio parco, senza chiedermi il permesso, un venditore ambulante di bibite e pizzette, col suo carrettino. Cominciò a gironzolare di qua e di là, vendendo i suoi prodotti ai visitatori, a un prezzo un po’ inferiore a quello richiesto dal gestore del chiosco. Il quale lo venne a sapere, e me ne chiese ragione, credendo che fossi stato io a violare il diritto d’esclusiva. Non ne sapevo niente: accorsi subito, affrontai l’intruso e lo invitai ad andarsene immediatamente, se non voleva passare guai. Quello rispose in malo modo, mi insolentì, blaterò frasi senza senso accusandomi di violare la libertà d’intrapresa, di essere un monopolista indegno, un nemico del libero mercato. Non ci vidi più: gli feci fare la fine di Masetto, quando voleva uccidermi. Fuori a pugni e calci: villano, mascalzon! Ceffo da cani! Si fosse fermato fuori del cancello, a vendere bibite e pizzette, padronissimo (uno poteva comperarle, poi entrare, e mettersi a magiare ai tavolini sotto le querce). Nessuno avrebbe detto nulla. Ma dentro no, perbacco, dentro comando io, e posso elargire esclusive di commercio a chi voglio. Se a qualcuno non garba, vada altrove.

In una scuola pubblica – secondo una consuetudine che credo viga in tutti gli istituti o quasi – per deliberazione del Consiglio d’Istituto il personale ausiliario è autorizzato a gestire il servizio di ristorazione per gli alunni, attenendosi a particolari prescrizioni di carattere igienico. Nessuno impedisce a un ragazzo di portarsi un panino da casa e mangiarselo durante l’intervallo. Uno il panino può farselo preparare dalla mamma, o comperarselo in un bar prima che suoni la campanella della scuola. Uno può anche improvvisarsi piccolo imprenditore in campo alimentare, preparare tanti bei panini a casa sua, e venderli, a casa sua, ai compagni, che poi saranno liberi di portarseli a scuola per la refezione. Se però il nostro industriale in erba pretende di organizzare il suo servizio di ristorazione dentro il perimetro della scuola, in concorrenza con quello ufficialmente in attività, le cose cambiano, e di molto. Si viola un regolamento che chi si è iscritto a quell’istituto s’è impegnato per contratto a rispettare. Nel nostro caso la scuola è pubblica, ma nulla cambierebbe se fosse privata: anche lì gli organismi direttivi competenti potrebbero concedere esclusive per i diversi servizi, in particolare per quello di ristorazione, al personale interno o a soggetti privati esterni, e avrebbero la piena facoltà di diffidare chi tenesse comportamenti in spreto a tali deliberazioni. In casa propria ognuno deve potersi regolare come vuole, e ha tutto il diritto di allontanare chi non rispetta le norme liberamente sottoscritte in contratto.

C’è qualcosa di poco libertario, anzi libertino, in questo mio ragionamento? Credo proprio di no. Ho fatto bene io a malmenare quello smargiasso che voleva vendere cibarie nel mio parco senza il mio permesso? C’è qualcuno che ha il coraggio di dire no? Non penso. Ma allora perché, in nome dei medesimi principi libertari, anzi libertini, grazie ai quali si assolve e magari si loda il mio operato, ci si stracciano le vesti allorché un preside di scuola pubblica richiama all’ordine un ragazzino che vende merendine dentro l’istituto, in violazione di norme che, al momento dell’iscrizione, si è impegnato liberamente a rispettare? Basta che la scuola sia pubblica, perché il ragazzino che si comporta così diventi un eroe della disobbedienza civile, come Gandhi, un paladino del libero mercato, un combattente per la liberazione dallo Stato ladro? Ma neanche per sogno! Non sono queste le battaglie libertarie, anzi libertine. Se bastasse la vigenza di una legge pubblica (nel senso di statale) a legittimare ogni trasgressione, staremmo freschi. Uno potrebbe dire: l’omicidio è punito dal Codice Rocco, il Codice Rocco non solo è legge dello Stato, ma addirittura risale all’epoca del Fascismo; quindi non sono tenuto a rispettarlo, e io uccido chi voglio. Oppure: il Codice della Strada è legge dello Stato; mi impedisce di attraversare un incrocio col semaforo rosso, ma io in quanto anarchico non mi sento tenuto a rispettarlo, passo come e quando voglio. E via di seguito. Bisognerebbe invece attenersi a quattro regole auree:

  1. Non rifiutare di attenersi a quelle norme che anche in un sistema anarchico esisterebbero e dovrebbero essere rispettate, con minaccia di sanzione per i trasgressori;
  2. Assumersi ogni responsabilità della violazione delle norme, autodenunciarsi e sottoporsi ai conseguenti procedimenti sanzionatori, di tipo amministrativo, civile e penale, pur ricorrendo a tutte le attenuanti che possano essere invocate a propria discolpa;
  3.  Praticare il lavoro nero salvaguardando scrupolosamente l’integrità fisica e la salute, nonché la dignità umana dei propri dipendenti o appaltatori;
  4. Evadere le imposte, di qualsiasi genere, ma nel contempo rifiutare tutte le elargizioni pubbliche facilmente sostituibili attraverso soluzioni contrattuali di libero mercato ( impossibile, almeno per ora, rinunciare alla giurisdizione statale, e, almeno in parte, all’apparato di sicurezza pubblico, al servizio sanitario nazionale, alla scuola di Stato – quella cosiddetta privata è in realtà scuola statale in appalto -, alla rete stradale e al sistema dei trasporti su scala nazionale, ecc.)

Cari amici libertari, non costruiamo eroi fasulli, per favore. I bimbi d’Italia che si chiaman Balilla lasciamoli nei versi bolsi della canzoncina pomposamente chiamata inno nazionale. Finiam le ragazzate. Hanno già cercato di gabellare per un grande linguista, anzi addirittura un grande poeta immaginifico, un nuovo d’Annunzio, quel ragazzino che ha coniato il termine “petaloso”. Pare si sia scomodata anche l’ Accademia della Crusca, Cerchiamo, almeno noi, di mantenere il senso della misura, e -soprattutto- del ridicolo. Qualcuno paventa che il succitato eroe delle merendine possa essere bocciato alla fine dell’anno scolastico. Ma in che mondo vive? Oggi non si boccia più nessuno, né perché somaro, né perché delinquente. Per essere bocciato uno deve aver come minimo accoltellato tre o quattro professori.

Giovanni Tenorio

Libertino