Don Giovanni

Libertà della scuola, libertà nella scuola, libertà dalla scuola

“…ritengo che questo articolo consacri non la libertà della scuola, ma la sua schiavitù. O la lingua italiana vuol dire qualcos’altro di quello che dice o è evidente che questo articolo consacra la schiavitù della scuola e non la sua libertà. Infatti il primo comma (…) dice che l’arte e la scienza sono libere e libero è l’insegnamento. Poi l’articolo seguita nei commi successivi a dire che la legge fissa gli obblighi delle scuole non statali ed assicura un’equipollenza di trattamento scolastico rispetto agli alunni degli istituti statali. Non si sa che cosa ciò voglia dire. Acquista poi significato da quello che è detto dopo, quando si afferma che è prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini, quindi dal ginnasio inferiore al superiore, dal liceo all’università, e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Se la lingua italiana vuol dire qualche cosa, questo vuol dire che lo Stato o qualche organo pubblico stabilisce quali siano i programmi, quali siano gli insegnamenti che devono essere impartiti, programmi ed insegnamenti a cui tutti gli ordini di scuole pubbliche e private si devono informare. L’articolo significa letteralmente, per quello che dice, che si consacra ancora una volta il valore legale di quello che è il pericolo, la peste maggiore delle nostre università, il valore giuridico dei diplomi, dei titoli di dottorato e di licenza che si rilasciano coi vari ordini di scuole. Mi si consenta di fare appello alla mia quasi cinquantennale esperienza di insegnante: ciò che turba massimamente le università è il fatto che gli insegnamenti, invece di essere indirizzati alla pura e semplice esposizione della verità scientifica, sono indirizzati al conseguimento di diplomi di nessun valore, né morale né legale”.

Ben scritto, vero? O meglio, ben detto, perché si tratta di un intervento verbale pronunciato nel corso di un’assemblea. E sarei pronto a scommettere che chi lo pronunciò non aveva davanti nessun foglio, non leggeva su nessun “gobbo”, come gli uomini politici semianalfabeti di oggi, che non sono capaci di spiccicare due parole senza leggerle. Al punto che uno si chiede:”Ma chi gliel’ avrà scritto quel discorso?” Ci fu addirittura un presidente della Repubblica che non solo leggeva, ma addirittura leggeva sillabando, come i bambini dislessici. Lasciamo perdere: chi era colui che pronunciò le parole sopra riportate? Un rivoluzionario? Un anarchico? Uno smidollato libertino come me? Nossignori, un gentiluomo del buon tempo antico, uomo di grande cultura, insegnante integerrimo, giornalista di vaglia, economista di prim’ordine: Luigi Einaudi. Si era in Assemblea Costituente, il giorno 29 aprile 1947. Si discuteva quello che, nella versione definitiva, sarebbe pentato l’articolo 33 della Costituzione, riguardante la libertà d’insegnamento, l’ordinamento istituzionale della scuola e il valore delle certificazioni accademiche. Una bocciatura su tutta la linea, quella di Einaudi, come vedete. Eppure l’articolo passò più o meno com’era stato proposto. La qual cosa significa che, se le argomentazioni di Einaudi non sono campate per aria, la scuola italiana è tutto fuorché libera. Se vogliamo liberarla, dobbiamo distruggerla dalle fondamenta, ripudiando ab imis il modello napoleonico assorbito fin dall’Unità e fatto proprio dalla Riforma Gentile. In somma, anche l’art. 33 è la riprova, se ce ne fosse bisogno, della continuità fra Italia fascista e Italia antifascista.

Detto questo, si capisce che la polemica, ogni tanto risorgente, sul finanziamento della scuola privata, brandita dai cattolici come battaglia di libertà, è, nel miglior dei casi, mal impostata, e, nel peggiore, in malafede. Così com’è – e non è certo il pateracchio della riforma Renzi ad aver cambiato le cose – la scuola non è libera. Ha ragione chi dice che bisogna parlare in ogni caso di sistema scolastico pubblico, che può essere gestito direttamente dallo Stato o da istituti privati. In somma, dove non ci arriva lo Stato dà in appalto. E spesso l’appaltatore offre un servizio mediocre. Come nelle ferrovie. Avete visto cos’è capitato in Puglia? Le grandi linee ferroviarie nazionali sono gestite direttamente da Trenitalia, e nel complesso non sono poi così male. Le linee secondarie vengono appaltate a società di sfigati che per la movimentazione del traffico rotabile usano ancora sistemi di mezzo secolo fa, come i fonogrammi da capostazione a capostazione. Le scuole cosiddette “private” si servono spesso di insegnanti assunti con contratti di collaborazione assai poco allettanti: possono licenziarsi ed essere licenziati in qualsiasi momento, non hanno diritto a ferie, non hanno copertura in caso di malattia. Spesso sono insegnanti delle scuole pubbliche che arrotondano il loro stipendio con un secondo lavoro. Se donne, nella maggior parte dei casi sono mogli di professionisti che si assumono un incarico scolastico non troppo impegnativo per ingannare la noia e accumulare un gruzzoletto da spendere a piacere. Gran parte delle scuole “private” appartengono a istituzioni religiose. Si contano sulle dita di una mezza mano quelle veramente valide (una per tutte: il Leone XIII di Milano, frequentato dai rampolli dell’alta borghesia, notoriamente severo secondo la tradizione gesuitica). Le altre vivacchiano, spesso acquistano una discreta fama perché pulite, ben tenute, tranquille, garanti di una buona educazione morale e religiosa. Ma l’insegnamento è quello che è. Ditemi voi, in un sistema del genere, con quale becco si può parlare di libertà d’insegnamento. Insegnamento religioso? E’ impartito, purtroppo, anche nelle scuole statali, da insegnanti che devono avere l’autorizzazione delle competenti autorità ecclesiastiche.Per il resto, le scuole “private”, se vogliono essere riconosciute dallo Stato devono impartire né più né meno gli stessi insegnamenti delle altre scuole, secondo gli stessi programmi ministeriali. Le prove d’esame finali sono affidate a commissioni nominate dall’autorità scolastica pubblica. Si sbandiera la presunta utilità di questo sistema tirando in ballo la benefica concorrenza fra istituti statali e istituti non statali. Quale concorrenza? Tutti offrono la stessa merce. Concorrenza sulla qualità? Neppure, perché le scuole “private” tendono a render più facili i corsi di studio, e di conseguenza anche il conseguimento del titolo con valore legale. Le commissioni di esami esterne dovrebbero garantire un controllo imparziale dei risultati. Una volta, forse, almeno in parte era così. Oggi è pentata una farsa. Può capitare che un commissario governativo, davanti al caso di un alunno che, nonostante le pessime prove, si vorrebbe promuovere, se ne lavi le mani, mettendosi al sicuro con espedienti di questo genere:”Non sono d’accordo con la commissione. Segretario, metta a verbale per favore il mio dissenso”. E i somari passano. Con titolo di studio munito di valore legale.

Hanno ragione, in un’ottica statalista, quelli che pretendono il finanziamento pubblico della scuola “privata”, se è vero che questa non è altro che scuola in appalto. Gli appalti si pagano. Da qualche tempo il mondo cattolico, con l’appoggio di personalità di spicco come Pera e Antiseri (del quale ultimo, sia detto per inciso, ho grande stima) rivendicano un sistema come quello dei buono-scuola, proposto negli Stati Uniti da Milton Friedman, riproposto dal figlio David in The machinery of freedom e in Italia da Antonio Martino (che di Friedman padre è stato discepolo). In che cosa consiste? Lo Stato dà ogni famiglia, per ciascun figlio, un buono da spendere nella scuola che si preferisce. Dovrebbe corrispondere a una somma pari a quella che attualmente lo Stato spende per l’educazione di uno studente presso le scuole sue proprie. L’idea non è sbagliata, a patto che si rinunci a parlare di libertà, e si accetti di rimanere entro un sistema non solo statalista, ma addirittura napoleonico. Altrimenti è da buttar via. Come farei io, senza pensarci due volte.

Per dovere d’onestà devo spezzare ancora una lancia a difesa del finanziamento pubblico della scuola “privata” (sempre ammesso e non concesso di accettare il sistema costituzionale vigente, che non è il mio caso). Molti sedicenti “laici” si oppongono a tale finanziamento, comunque venga attuato, con buoni-scuola o con sovvenzioni dirette agli istituti, perché -dicono- in contrasto con il comma terzo dell’art. 33 della Costituzione, il quale recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. Questi signori non sanno, o fingono di non sapere che l’emendamento “senza oneri per lo Stato” fu aggiunto su richiesta di Tristano Codignola e Epicarmo Corbino; i quali si premurarono di chiarire che lo Stato non è tenuto a finanziare la scuola privata, ma se vuole può farlo. E allora? Sia pure obtorto collo sono costretto ad ammettere che hanno ragione i preti. Amicus Plato sed magis amica veritas.

Quanto a me, sapete che vi dico? Né libertà nella scuola né libertà della scuola, ma libertà dalla scuola. Ognuno si istruisca – o rimanga ignorante – come meglio crede.

Giovanni Tenorio

Libertino

3 pensieri riguardo “Libertà della scuola, libertà nella scuola, libertà dalla scuola

  • Alessandro Colla

    Infatti “senza oneri per lo stato” significa che lo stato non è obbligato a finanziare, non che gli sia vietato. Altrimenti perché non ci si ribella in nome della costituzione quando finanzia il cinema? Per opere a volte di qualità, altre emerite porcate? Una stima generica anche da parte mia per Antiseri (a parte il suo testo “Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano”, dove monsignor Fisichella è costretto a riconoscere le evidenti difficoltà nella stesura della postfazione) ma non posso dimenticare la sua critica a Rothbard, dove sostiene che il libertario sia un illiberale. Ho stima anche di Orwell e Bernard Shaw o di Vittorio De Sica ma a questo punto potrei stimare anche Gramsci, almeno sotto certi aspetti (Marx sicuramente no). Non ricordo il presidente sillabatore. Scalfaro, forse?

  • No, non era Scalfaro, che risultava indisponente, lui cattolicone bigotto fino alla punta dei capelli, per la sua erre moscia da checca. Era Antonio Segni, eletto nel 1962 e costretto alle dimissioni nel 1964, dopo qualche mese di supplenza da parte del presidente del Senato Cesare Merzagora, per una grave malattia. Fu lui a d autorizzare il famoso “Piano Solo” del generale De Lorenzo, considerato da molti come un vero e proprio tentativo di colpo di Stato. Quando leggeva i suoi discorsi, sillabando, faceva venire l’ansia.

  • Alessandro Colla

    Tra i misteri insoluti d’Italia c’è proprio il Piano Solo, che qualcuno ha scambiato per una composizione cameristica per tastiera. Fu, appunto, considerato da molti come un tentativo di colpo di stato. Lo fu veramente? Ricordo Pannella quando definì Segni padre come uomo buono e onesto, un parlamentare radicale (mi pare fosse Giovanni Negri) disse la stessa cosa di Cossiga e Scalfaro. Segni fu ingannato da De Lorenzo? E quest’ultimo non veniva dalla resistenza partigiana? O non fu un vero e proprio tentativo insurrezionale?

I commenti sono chiusi.