Don Giovanni

I due pavoni

A Roma ci sono due pavoni. Uno di qua e uno di là dal Tevere. Quello di là è l’ultimo monarca assoluto rimasto sulla faccia della terra, eletto a suffragio ristrettissimo da una cerchia di alti dignitari. Appena eletto, doveva scegliersi un nome. Attribuirsi quello di Colui del quale si dice vicario sarebbe stato, più che un atto di presunzione, una bestemmia. Anche adornarsi dell’appellativo del capostipite dinastico, come nessuno mai prima di lui aveva fatto, sarebbe apparsa come una forma di superbia. L’astuzia gesuitica gli suggerì il nome del Poverello d’Assisi. Un rivoluzionario, che con l’esempio mise a nudo la contraddizione d’una Chiesa ricca e compromessa col potere mondano; ma, grazie alla rigorosa fedeltà alla dottrina, riuscì a evitare la brutta fine dei Catari,  e dopo la morte, a diventare addirittura un santino da proporre ai fedeli, a sostegno di quella stessa istituzione di cui era stato l’antitesi vivente. Quindi, grazie alla furbizia pretesca da sempre capace di far apparire bianco il nero e nero il bianco, oggi un Francesco I con attributi regali può non sembrare una stonatura, anche se tale è, e per chi ha l’orecchio fino anche piuttosto stridente. Come può adornarsi con le penne del Poverello chi sta seduto su un trono, e per quanto esibisca un desco frugale e un alloggio modesto, rimane pur sempre un monarca, con intorno una corte e un esercito di mercenari al suo servizio? E’ semplice: basta avere le penne non di Francesco (d’Assisi), come appare, ma d’un pavone. Ci sono due modi di pavoneggiarsi: uno ostentando lusso, bellezza, raffinatezza, l’altro, al contrario, mostrando tutto l’opposto: modestia, povertà, umiltà.
Un esempio del primo ci viene da un vecchio film a episodi di Dino Risi, “I mostri”. Vi ricordate quel frate, Francesco anche lui, che dal barbiere si fa bello come un damerino per poi andare in TV a far professione d’umiltà leggendo il testamento del suo omonimo assisiate? Quello fa ridere a crepapelle, perché si vede subito ch’è un ipocrita in cerca di successo mediatico. Un esempio del secondo l’abbiamo continuamente sotto gli occhi, anche a voler guardare da tutt’altra parte, perché ce lo troviamo davanti nostro malgrado sui giornali, in TV, adesso anche nelle vetrine delle librerie. Da poco eletto, comincia a concedere interviste. Si dice “relativista”, con un furbesco gioco di parole, facendo andare in brodo di giuggiole atei e miscredenti; dice di non poter giudicare i culattoni, e si conquista così il consenso anche di quelli; strizza l’occhietto al mondo islamico, lasciando capire che quelli di “Charlie Hebdo” se la sono cercata, perché a parlar male della mamma altrui non ci si può  aspettare altro che d’esser presi a pugni (e il porgere l’altra guancia che fine ha fatto?); finge di non volersi impicciare della politica italiana, ma è ben contento di mandare avanti come un carro armato Bagnasco con la sua combriccola della Cei a interferire negli affari di governo e parlamento (traendo in inganno anche un sottile commentatore come Sergio Romano, che si compiace di una tal presunta neutralità). In compenso, nel suo viaggio in America si permette di proclamare che Donald Trump non è cristiano (dov’è finito il “nolite iudicare” evangelico esibito per i culattoni?) perché vuole i muri invece che i ponti. E a chi gli rimprovera, così, di far politica, risponde tirando in ballo, a sproposito, Aristotele e la sua definizione dell’uomo come “animale politico”: ancora un abile giocar con le parole. Avrebbe dovuto ricordarsi di Gesù Cristo, il quale disse che il suo regno non è di questo mondo. Intanto, a mostrare qual è il vero volto di Santa Romana Chiesa, basta che due giornalisti divulghino, com’è loro dovere professionale, notizie scabrose riguardanti la curia, del cui segreto violato sono responsabili altri, perché si prendano un’incriminazione dall’autorità giudiziaria vaticana. Il Nostro se ne compiace parlando dal balcone ai fedeli riuniti in Piazza San Pietro. E tutti zitti! Dov’è il papa rivoluzionario?  “Agnosco stilum Romanae Ecclesiae” esclamò nel 1607 Paolo Sarpi quando i sicari assoldati dalla curia cercarono di mandarlo all’altro mondo. Niente di nuovo sotto il sole. Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.
E’ chiaro che un personaggio così ha capito bene in che mondo viviamo, e che cosa bisogna fare per guadagnarsi il  consenso d’una vasta platea. Consigliandogli di non concedere interviste in aereo quando è stanco, il filosofo cattolico Michael Novak, uomo saggio e probo incapace di mal pensare, dimostra di non aver capito  un bel  nulla di lui: è proprio questo straparlare, irto di contraddizioni, luoghi comuni, finte aperture alla modernità, compiacimenti per le tematiche cosiddette progressiste, dall’ecologismo alle teorie anti-capitalistiche di Piketty, a far di lui un divo. Un pavone che si finge un tacchino. Solo Piero Ostellino, all’inizio del di lui pontificato, capì con chi si aveva che fare. Lo chiamò vanitoso, e confesso che anche a me sembrò un giudizio avventato. Per niente. Aveva fatto centro!
L’altro pavone, dicevamo, abita  di qua dal Tevere. A differenza del primo,  si mostra spavaldo quant’altri mai, si sente e si dichiara un innovatore, anzi un “rottamatore” della vecchia politica. Sembrerebbe un emulo di Berlusconi, e in un certo senso tale è, ma con più sottile astuzia. Non si dichiara “unto del Signore”, non si compiace di festini sontuosi allietati da stuoli di puttanelle, non mostra ai suoi ospiti (né potrebbe farlo, perché non è un rozzo arricchito  come quell’altro) il letto dove ha dormito Putin. Però è convinto di essere il salvatore della patria, dopo gli anni bui della recessione e dei sacrifici. Ha saputo introdurre una riforma delle camere congegnata in tal modo da consegnargli, in caso di vittoria alle elezioni, un potere forte, privo di contrappesi. Anche la riforma della Rai gioca a suo favore. Quando uno scandalo bancario rischia di travolgere una ministra belloccia del suo governo, che si è sempre saputa rendere mediaticamente ben visibile  nei suoi maneggi a pro delle riforme istituzionali, svia l’attenzione dei sudditi attraverso la stampa compiacente, che subito si focalizza sullo scontro, costruito ad arte dal Nostro, con le autorità europee: alle quali, pestando i pugni, si rimproverano grettezza, miopia, insensibilità alle ragioni dello sviluppo in nome di una malintesa austerità, asservimento agli interessi teutonici incarnati dalla Merkel. Ma l’Italia non si lascerà mettere sotto i piedi! Si conquisterà il diritto a una politica di bilancio più espansiva. Nel giro di pochi anni diventerà il faro del Vecchio Continente, grazie a manovre economiche e riforme sociali che saranno modello per tutti.
Poi è la volta della battaglia, in parlamento, per la legge sulle unioni civili. Le zuffe fra gli esponenti dei vari bigottismi, di destra di sinistra di centro, ancora una volta occupano le prime pagine dei quotidiani, mentre le notizie sull’economia mondiale che arranca col fiato grosso interessa,  per ora, solo uno sparuto drappello di esperti, nelle pagine interne dei quotidiani o nei fascicoli allegati che trattano di problemi economici e finanziari. Il prezzo dell’oro sta salendo vertiginosamente, ma nessuno sembra avvedersene. Neppure il nostro brillante rottamatore, il quale non ha ancora capito d’essere sull’orlo di un baratro. Aveva puntato , per il successo della sua strategia politica, sulla ripresa economica mondiale, trainata dagli Stati Uniti, che avrebbe offerto all’Italia l’occasione di trarsi fuori del pantano assecondando la congiuntura favorevole con interventi di tipo keynesiano per risvegliare la domanda interna di beni e servizi. Le mancette come gli 80 euro in busta paga e, più recentemente, il contributo ai diciottenni per spese culturali vanno in questo senso, oltre che mirare all’inconfessato fine di accattivarsi i voti d’una vasta fascia d’elettori, grati dell’elargizione (un modo di rimettere in azione, con più eleganza, l’espediente con cui negli anni Cinquanta dello scorso secolo a Napoli Achille Lauro si accaparrava i voti alle elezioni comunali distribuendo la pasta al proletariato straccione). Ma la realtà non pare corrispondere ai suoi sogni. I Draghignazzi e le Befane, con le loro alluvioni di denaro, hanno fatto cilecca, alimentando la speculazione borsistica e le rendite delle banche, ma lasciando all’asciutto l’attività produttiva. L’Europa sembra in coma e gli Stati Uniti, dopo deboli segni di ripresa, stanno rallentando in modo preoccupante. In Cina, a quanto pare, il sistema monetario imperniato, secondo il modello ormai divenuto universale dell’Occidente, sulla banca centrale con le sue manipolazioni monetarie, sta pagando il prezzo di investimenti senza sbocco, che porteranno a fallimenti clamorosi, inesigibilità dei crediti, contrazione dell’attività produttiva e disoccupazione. Il Giappone di Abe e Kuroda rimane nella palude in cui è invischiato da decenni. E’ in vista una corsa alle svalutazioni competitive, che alla fine, come sempre, provocheranno disastri. In questo scenario, tempo pochi mesi e l’Italia vedrà esplodere i problemi economici che ha fatto finta d’aver avviato a soluzione. Intanto, pare che il debito pubblico sia ancora cresciuto e che la pressione fiscale si sia fatta ancora più pesante . Se il referendum cui il popolo italico fra qualche tempo sarà chiamato per dire la sua sulla riforma costituzionale cadrà in un momento di crisi economica avanzata, per lo smargiasso di Palazzo Chigi sarà la fine. E lui, a differenza di quell’altro, non ha l’assistenza dello Spirito Santo.

Giovanni Tenorio

Libertino