Don Giovanni

Come ai tempi di Napoleone.

Prima il Corso era esecrato dai preti, perché s’era messo sulle orme della Rivoluzione e aveva fatto fuggire il papa da Roma. Poi, quando da imperatore si riappacificò con la gerarchia ecclesiastica sottoscrivendo un concordato, arrivarono addirittura a far cantare il Te Deum nelle chiese per celebrarne le vittorie militari (beati i pacifici!). Carlo Porta ne fa la satira in una sua poesia, in cui immagina che Nostro Signore sia lì lì per scaraventare un fulmine contro i suoi indegni ministri, salvo poi lasciar perdere, perché dalla servitù non ci si può aspettare niente di buono.

Anche adesso, per Mario Draghi (che non è Napoleone, ma per alcuni poco ci manca, o è anche qualcosa di più, per aver scongiurato la Waterloo dell’ Euro) i preti intonano il Te Deum (metaforicamente, si intende, perché non conoscono più il latino e men che meno sanno cantare in gregoriano). Con una differenza sostanziale, però: che questa volta non hanno voltato gabbana, sono coerenti con la loro posizione di sempre. Draghi è uno di loro. come del resto Conte. Solo che Conte è nient’altro che un caporaluccio, resosi benemerito per la sua frequentazione delle sacrestie e la devozione a Padre Pio, Draghi invece è un pezzo da novanta, uscito dalle scuole dei Gesuiti, che coi Gesuiti ha sempre mantenuto un ottimo rapporto ai più alti livelli, e dall’odierno papa gesuita è stato recentemente accolto tra i membri dell’Accademia delle Scienze vaticana. Meno coerente, forse, è dichiarare, in tanti documenti dottrinali, una preconcetta avversione al capitalismo nel nome della povertà francescana cui si pretende di ispirarsi fin nel nome pontificale, e poi manifestare fraterna amicizia a chi del peggior capitalismo è in effetti uno dei massimi esponenti. Ma la coerenza tra il dire e il fare non è mai stata tra le virtù di Santa Romana Chiesa.Veri e propri voltagabbana sono stati invece tutti quelli che fino a ieri di Draghi hanno detto peste e corna, e ora  si genuflettono ai suoi piedi per motivi di bottega. Erano i più fieri oppositori di un’Europa asservita ai poteri forti, nemica delle identità nazionali, usurpatrice della sovranità popolare, ed ora  esaltano uno dei suoi più illustri paladini come un duplice salvatore: della moneta comune, prima; della sua stessa patria, alle prese con una crisi da far tremare i polsi, ora. E’ l’uomo del “whatever it takes”: ha avuto successo una volta, avrà successo ancora. Davanti a un simile, deprimente spettacolo (si salva, per ora, soltanto Giorgia Meloni, una delle poche persone intelligenti in mezzo a tanti quaquaraquà) devo confessare che, pur avendo sempre irriso i cosiddetti sovranisti e tutti coloro che vorrebbero tornare a una moneta nazionale prodotta ad libitum secondo le esigenze del popolo (una sorta di teoria monetaria secondo la dottrina di Pinocchio, battezzata con nomi pomposi, vecchia come il cucco ma gabellata come grande novità), non posso non ammirarli perché, rimasti in quattro gatti, hanno il coraggio di non unirsi al coro osannante e di rimanere sulle proprie posizioni. La loro voce è molto fioca, perché non trova spazio nei mezzi di informazione del regime, ma soltanto sui canali alternativi, quelli che un giorno no e un giorno sì rischiano di essere oscurati perché danno fastidio ai padroni del vapore (e basterebbe soltanto questo a rendermeli simpatici, anche se diffondessero sempre opinioni del tutto opposte alle mie, il che non è). A loro Draghi non piace perché lo considerano, con un epiteto del tutto sviante e brandito come un marchio d’infamia, un “neo-liberista”. Ricordano che fu lui a “svendere” l’industria pubblica italiana nel 1992, quando si incontrò, sul panfilo “Britannia”, con i più grandi potentati della finanza internazionale, alle cui poppe era stato nutrito; ricordano che ebbe una parte preminente, come direttore del Tesoro prima e governatore della Banca d’Italia poi, nei maneggi posti in atto per portare l’Italia dalla Lira all’Euro. In questo modo avrebbe tradito l’insegnamento del suo maestro Federico Caffè, keynesiano fervente poco incline ai progetti di moneta comune europea. Quanto all’ultimo Draghi, quello del Q.E., sarebbero anche disposti a riconoscergli un cambiamento di rotta, in barba agli sparagnini della Bundesbank guidati da Jens Weidmann, se non fosse che, proprio per il loro non mai rinnegato sovranismo, continuano a vedere (con qualche ragione) l’Euro come il fumo negli occhi. Sono invece i convertiti al draghismo dell’ultima ora, di ci si diceva sopra, a esaltare proprio questo presunto cambio di rotta. Da “liberista selvaggio” Draghi sarebbe diventato, o meglio ridiventato, keynesiano. Se andrà al governo, non ci si dovranno attendere da lui lacrime e sangue, come invece accadde con il governo Monti.Draghi e Monti per me pari sono. Né liberisti né keynesiani, ma figli legittimi del brutto sistema in cui ci dibattiamo. Contrariamente a quello che dicono i sovranisti, fu buona cosa liquidare i carrozzoni di Stato, anche se va riconosciuto che l’operazione fu compiuta in modo opaco, ricordando tra l’altro che privatizzazione e liberalizzazione non sono la stessa cosa. Anche l’ingresso dell’Italia nell’Euro è stato per molti aspetti pasticciato e truffaldino, come ben spiegò in un suo libello di molti anni fa Geminello Alvi.  Una moneta comune in assenza di un vero governo centrale, con un suo ministero dell’economia e una sua politica unitaria nel campo tributario e dei diritti del lavoro  rimane una costruzione fragile. Forse era proprio quello che pensava Federico Caffè. Era quello che pensava anche un economista della sponda opposta come Antonio Martino. Detto questo, che l’Euro fosse nato con uno statuto di stile “tedesco”, per tutelare la moneta e non per stimolare l’economia, com’è invece sempre stato fra i compiti della FED statunitense, non era per niente un male. Per questo non  era consentito alla BCE di comperare direttamente debito pubblico dei singoli Stati. Per questo Trichet, quando ne fu governatore, non cedette alle lusinghe della moneta facile, con operazioni sul tipo di quelle che, con Alan Greespan alla FED, portarono l’America dei “conservatori compassionevoli” di Bush jr. alla crisi del 2008. Con ottimismo davvero fuori luogo un liberista autentico della Scuola Austriaca come Jesus Huerta de Soto arrivò a dire che, grazie un simile statuto, la moneta unica europea poteva diventare il meno peggio fra le monete fiduciarie. Da far rizzare i capelli ai sovranisti nostrani, che ancor oggi deprecano il cosiddetto “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro, visto come il principio della fine, dimenticando l’inflazione a due cifre che deliziava l’economia italiana negli anni Settanta dello scorso secolo,  quando l’istituto d’emissione era tenuto ad acquistare la quota di debito pubblico eventualmente rimasta invenduta sul mercato. Non fu affatto una cattiva idea (pessima idea fu invece quella di mutilare il meccanismo della “scala mobile” per l’adeguamento di stipendi e salari alle variazioni del costo della vita: di questo i sovranisti non parlano, forse perché era un aborrito liberista come Milton Friedman – cui faceva eco in Italia Sergio Ricossa, a difenderlo). E’ vero che il debito pubblico, negli anni di Craxi, continuò a salire, ma questo è un altro dicorso, imputabile alla politica economica dei governi di allora (come non è imputabile a Draghi il fatto che i proventi delle privatizzazioni furono impiegati non per ridurre il debito, come si sarebbe dovuto fare, ma il deficit).La svolta nella politica della BCE si è avuta proprio con Draghi, ed è stato un vero tradimento del suo mandato. Con il cosiddetto “Quantitative easing”si è immessa un’enorme liquidità nel sistema. in questo modo si è ottenuto un drastico abbassamento del famigerato “spread” sul debito pubblico italiano, salvando indubbiamente l’Italia dal tracollo. L’acquisto di debito pubblico sul mercato secondario è andato però a beneficio delle banche e della speculazione borsistica. L’intento dichiarato era quello di produrre un moderato aumento dei prezzi come stimolo dell’economia.Il timore dei critici, soprattutto di parte tedesca, era quello di un’inflazione devastante. Non è successo niente. I prezzi sono rimasti sostanzialmente fermi. Vedete? -dicono i sovranisti. Non è più vero, com’è scritto in tutti i vecchi testi di economia, che l’aumento della massa monetaria produce inflazione. Quindi, riappropriamoci la sovranità monetaria nazionale, ed emettiamo denaro secondo le nostre necessità. Ma le cose stanno proprio così? In realtà i prezzi sono aumentati, eccome! La borsa non è mai stata così florida come in questi tempi di difficoltà economiche. La moneta immessa nel sistema è finita lì, non nelle attività produttive. Questo scollamento del mondo finanziario da quello dell’economia reale è la vera tragedia dell’assetto economico in cui viviamo, che è tutto fuorché liberista e mercatista. Non è neanche keynesiano . E’ un sistema di falsari legalizzati, il cui operato può causare soltanto bolle speculative, non vera ricchezza diffusa. Se è questo il capitalismo che piace ai preti, se lo tengano.Ci si può sempre consolare pensando che Draghi al governo non potrà fare peggio di Conte. Sicuramente riuscirà a gestire il “Recovery fund” meglio di lui, date le sue competenze in campo economico. Chissà chi proporrà come ministro dell’Economia, al posto di quel Gualtieri che, a quanto mi risulta, ha una laurea in Lettere. Corrono voci, mentre scrivo, che al ministero della Salute potrebbe rimanere Speranza. Ministero della Disperazione.

Giovanni Tenorio

Libertino

3 pensieri riguardo “Come ai tempi di Napoleone.

  • Dino Sgura

    Devo ammettere che Giorgia Meloni mi sta sempre più simpatica, giorno dopo giorno. Eh sì è vero, è una persona intelligente, ne abbiamo avuto la conferma.

    • Più che altro scaltra; se Ivan Drago andrà bene, farà finta di niente, sennò dirà “io l’avevo detto”.
      Ma la simpatia temo dipenda più dal look e accento coatto-borgataro che – come quello di Asia – sembra affascinarti davvero molto, e per motivi neppur tanto misteriosi.

  • Alessandro Colla

    Il motivo della difesa della scala mobile da parte di alcuni liberali era probabilmente dovuto al tentativo di limitare la conflittualità sindacale e le continue rivendicazioni delle varie sigle rappresentative. Tecnicamente questa scala non mi ha mai convinto, l’ho sempre ritenuta una delle cause inflattive degli anni settanta. E’ vero che con Craxi prima e De Mita dopo, la spesa pubblica non diminuì ma la colpa non era della soppressa indicizzazione. Il clientelismo nascosto del primo e sfacciato del secondo, impedirono anche solo il poter parlare di una riduzione della spesa. Quanto a Giorgia Meloni, “scaltra” è anche eccessivo. Fingerà di stare all’opposizione ma chissà quanti provvedimenti i suoi gruppi parlamentari approveranno! Mica può ostacolare troppo i suoi alleati che invece stanno in maggioranza a spartirsi i soldi del “Ricovero Demenziale”. Altrimenti sarà difficile chiedere loro di candidare i militanti di Fratelli d’Italia come sindaci delle grandi città. Sempre che a giugno si voti, certo.

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