Don Giovanni

Collettivismo, mercato e formiche

Ogni tanto è buona cosa dare uno sguardo a quel che si dice fuori del proprio orticello. Gli anarchici sono quattro gatti, e non possono rimanere chiusi nel loro recinto. Devono ascoltare anche quelli che anarchici non sono, cioè la maggioranza. Fin qui, penso che possiamo essere d’accordo. Ma bisogna andare oltre. Visto che siamo anarchici, nessuno di noi è uguale a un altro. Un anarchico che vuol fondare un partito secondo me si contraddice. Siamo d’accordo su alcuni principi fondamentali, primo fra tutti che lo Stato è una gran brutta cosa. Ma io sono io e tu sei tu. Poi è chiaro che non siamo atomi, possiamo aggregarci per affinità. Ahimè, che brutto termine ho usato: aggregarci! No, il gregge proprio no! Diciamo frequentarci, discutere con particolare piacere su argomenti che condividiamo, stringere vincoli di amicizia nel nome di tante idee comuni.  Ma dobbiamo anche parlare con chi è anarchico in altro modo, dissentendo da noi su molti punti, magari litigarci anche. Ma partecipare alle sue battaglie, se lo scopo è quello di ridurre l’oppressione, dello Stato in primo luogo, ma non solo. E’ bello percorrere un tratto di strada insieme, per poi magari separarsi di nuovo, e più avanti ritrovarsi ancora. Io ogni tanto getto uno sguardo al sito del “Center for a stateless society”, i cui articoli sono tradotti in italiano da Enrico Sanna. Mi è già capitato di farne cenno. Non sempre sono d’accordo; qualche volta rimango perplesso. Talora mi trovo in disaccordo totale. Però sono articoli che fanno sempre pensare. Hanno il pregio di suscitare qualche dubbio, e talvolta di scardinare qualche certezza. Ben vengano, quindi.

L’ultimo che ho letto mi è davvero piaciuto, e vi invito ad andare a leggerlo. Cercherò di riassumerlo, aggiungendo qualche altra considerazione, e concludendo con una riflessione tutta mia. L’autore è Toby Fitzimmons. Non chiedetemi chi è, finora non l’avevo sentito nominare. Si intitola, in italiano, “L’uso della conoscenza nei formicai”, ma il titolo originale è “Anticapitalism: the use of knowledge in the nest”. Parte da un’analisi di quello che capita nei formicai: una società in apparenza socialista, dove ogni membro svolge il suo lavoro non per il bene proprio, ma, generosamente, per quello della collettività, con risultati ottimali. Un modello – questo lo aggiungo io – come quello prospettato da Marx ed Engels una volta superato il Capitalismo, allorché, in un mondo di eguali e di ricchezza collettiva, ognuno lavora gioiosamente seguendo il proprio talento, e magari passando, a piacere, da un’attività a un’altra,  ma sempre in vista del bene comune. Si potrebbe pensare, allora, identificando Capitalismo e Mercato, che un sistema collettivistico è secondo natura, mentre un sistema di mercato è un’anomalia, dovuta all’imperfezione del mondo umano rispetto a quello degli insetti. Ma è proprio così? No! Vediamo perché. Hayek ci spiega che in un’economia pianificata nessuno può possedere tutte le conoscenze necessaria per programmare un sistema produttiva armonico ed efficiente, capace di rispondere a tutti i desideri e le necessità. Le conoscenze sono molto diffuse, tra una miriade di persone. Solo il sistema dei prezzi, cioè un sistema di mercato, attraverso il gioco della domanda e dell’offerta, dispone dei segnali capaci di orientare nel suo complesso l’economia verso risultarti ottimali. Se un bene è scarso, il suo prezzo aumenta. Così risulterà conveniente dedicarsi alla sua produzione. Lo stesso si dica se per una certa produzione i lavoratori specializzati sono pochi: i salari aumenteranno, e chi possederà le competenze richieste abbandonerà impieghi meno remunerativi per accettare contratti di lavoro più lucrosi. Rinunciare ai prezzi significa brancolare nel buio, producendo beni che non soddisfanno alle necessità e trascurando quelli che invece risponderebbero alle richieste dei consumatori. Il fallimento dei piani quinquennali sovietici ne sono la dimostrazione. Anche nel formicaio troviamo segnali che in qualche modo corrispondono al sistema dei prezzi. Se, per esempio, una formica trova per caso un insetto, che sarebbe utile per il sostentamento di tutta la comunità, emette feromoni, che attraggono altre formiche; le quali, a loro volta, emettono altri feromoni, attirando una frotta di compagne che, abbandonato il lavoro cui erano intente, si dedicano alla nuova attività. I feromoni, quindi, svolgono proprio la funzione che nel mercato spetta ai prezzi: sono segnali d’orientamento. Ma allora è il sistema di mercato quello più conforme alla natura, non quello collettivistico. Può però capitare qualche anomalia, che ogni tanto manda in crisi il meccanismo. Una formica, per qualche motivo non ben chiaro, emette troppi feromoni, o li emette a sproposito. Allora si genera un circolo vizioso. Il segnale non corrisponde più alla situazione reale. Si ha una perdita di efficienza e di produttività. Qualcosa di simile può capitare anche nel sistema si mercato. Il nostro autore fa l’esempio di quanto è avvenuto negli Stati Uniti quando il mercato immobiliare crollò, innescando quella crisi che avrebbe travolto il mondo finanziari con i famosi titoli spazzatura, contagiando tutto il mondo. Conclusione: anche il mercato fa quello che può. La Natura non è perfetta. Meno che mai è perfetta la realtà umana.Giustissimo! Però mi permetto di fare un’osservazione. Una quindicina di anni fa il mercato immobiliare negli Stati Uniti andò in crisi perché la politica dei Repubblicani, il “conservatorismo di buon cuore” aveva introdotto nel sistema incentivi fiscali, soprattutto a favore dei ceti meno abbienti, per favorire l’acquisto di immobili. In questo modo i prezzi di mercato venivano distorti: la domanda di case cresceva, e i prezzi del  comparto immobiliare si gonfiavano a dismisura. Così si venne a formare una situazione anomala, che non corrispondeva alle esigenze della società. Era inevitabile che a un certo punto il castello di carte crollasse. E così fu. Ma non era un fallimento del mercato: era un pasticcio della politica. Sia ben chiaro: non voglio sostenere che il mercato è perfetto. Rimango anch’io convinto che la perfezione non è di questo mondo, e che anche in un sistema di mercato puro -quale in nessun momento storico è stato conosciuto – ogni tanto qualcosa si incepperebbe, provocando crisi più o meno gravi. Penso però che sarebbero crisi più facilmente superabili di quelle che capitano quando lo Stato fa pasticci una prima volta e ne fa ancora di più quando tenta di porvi rimedio.Aggiungo un’altra osservazione, che forse è una sciocchezza assoluta. Non sono una naturalista, non mi intendo di etologia, non so come si svolgano gli esperimenti in quel campo. Credo però che lo studioso, per vedere come si comporta un formicaio quando qualche formica trova un insetto, debba intervenire per fornire alle formiche proprio quell’insetto del quale altrimenti non avrebbero avuto la disponibilità. Deve fare, in un certo senso, quello che hanno fatto i “conservatori di buon cuore”, turbando le normali interazioni imprenditoriali, lavorative e commerciali. L’ho detta grossa, datemi pure del coglione. Per una volta tanto ho voluto parlare di quel che non so, contravvenendo ai miei principi. Ben mi sta.

Giovanni Tenorio

Libertino

4 pensieri riguardo “Collettivismo, mercato e formiche

  • Alessandro Colla

    Lo studioso, forse, è legittimato all’intervento. Il politico, peraltro coni miei soldi, no. Forse il segreto è tutto qui. E nel libero mercato la figura dello studioso è rappresentata dall’imprenditore sperimentatore, non dallo stato invasore che ha tutt’altre finalità. Sul come arrivarci si può discutere. Se in apparenza risulta contraddittorio il formare un partito anarchico, in sostanza gli anarchici tendono spontaneamente ad associarsi. Non necessariamente a partecipare a votazioni parlamentari scelte da regolatori statali. L’essenziale è evitare il dogmatismo, questo sì sarebbe in contraddizione con l’anarchismo. Se, sia pure solo teoricamente, l’unica via per raggiungere l’obiettivo fosse quella della partecipazione alle competizioni elettorali, non si dovrebbe escludere a priori tale via. Oggi come oggi sarebbe probabilmente inutile ma questo è un altro discorso. Siamo per la non violenza e contro la guerra ma non contro la legittima difesa. L’opzione armata non ci piace ma se fosse l’unica possibilità di sopravvivenza non dovremmo allearci con i quacqueri ma con altre confessioni. O non confessioni.

  • Individualismo o il collettivismo? Imho si può avere i vantaggi dell’uno e dell’altro allo stesso tempo e fare bingo, purchè vi sia un popolo civile, maturo ed evoluto (il bel paese quindi è ancora lontano). E’ nota la mia simpatia per il Giappone, la Corea, la Scandinavia proprio per questi motivi, perchè sono collettivi di persone che agiscono come un sol uomo in vista del bene collettivo.

    L’anarchico e naturalista Kropotkin ne “Il mutuo appoggio” ha fatto un ampia disanima della collaborazione tra soggetti e dell’egoismo individuale, aprendo la mente a situazioni che un profano non si immaginerebbe mai (es. le api rapinatrici, che campano da parassite di furto) .

    Anche l’Equilibrio di Nash è un buon compromesso tra Smith e Pareto. Lo schizzato che l’ha formulata ci ha persino rimediato un nobel e a ben guardare non è altro che la trasposizione matematica di una regola morale. (Filippesi2 3,4). E si riesce pure a renderla più accattivante con un semplice link sul tubo.

    youtube.com/watch?v=jAUlrWJtjVY

    • Caro Max, sono più che mai convinto che in un contesto anarchico le società di mutuo soccorso e tutte le associazioni benefiche senza scopo di lucro non soltanto devono essere ben accolte, ma anche ritenute assolutamente necessarie. Possono benissimo convivere con un sistema di libero scambio, senza frizioni, avendo come fine quello di lenire disagi e sofferenze davanti a cui il mercato, per la sua logica soltanto economica, si rivela impotente. Di più: se in un sistema anarchico una comunità vuol vivere secondo criteri non solo “anticapitalistici” ma anche “antimercatistici” al proprio interno, nessuno glielo deve impedire. Vivere come le prime comunità cristiane, in cui “tutto era comune”? Benissimo (purché chi sgarra venga semplicemente espulso, senza fare la fine di Anania e Saffira). Mi risulta che, in Israele, i “Kibbutzim” operino senza difficoltà entro un sistema di mercato, mantenendo un assetto interno strutturalmente “comunista”. Ha ragione Kropotkin a imputare allo Stato moderno l’abolizione di tutto quel tessuto di associazioni mutualistiche e volontarie che in passato sovvenivano alle necessità dei ceti più poveri. Ciò detto, non mi sento di condividere l’entusiasmo per modelli come quello scandinavo o coreano o giapponese. Né per tutti quei sistemi di “welfare” , ormai universalmente dominanti, che, avocando allo Stato le funzioni caritative e umanitarie un tempo svolte da associazioni nate per gemmazione spontanea dal seno della società, hanno di fatto limitato le libertà dei cittadini producendo una fiscalità vessatoria, una burocrazia asfissiante e tanti altri mali, fra cui un’intromissione sempre più capillare nella vita privata degli individui, attraverso schedature e controlli polizieschi d’ogni genere. L’idea di un popolo che marcia come un sol uomo in nome del bene comune non mi piace per niente. Non so che cosa sia il bene comune. Viene considerato bene comune quello che il governo indica come tale. E’ un governo democraticamente eletto? D’accordo, ma questo non cambia i termini della questione. Quel che è bene per me può essere male per te. Io sono per una società conflittuale, dove si scontrano interessi e valori diversi. Porto semplicemente alle estreme conseguenze i principi del liberalismo classico, il cui torto è stato quello di essersi fermato a metà strada e di essersi snaturato con tristi connubi. “La bellezza della lotta” è il titolo di un articolo di Luigi Einaudi pubblicato nel 1922 sulla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti. Gobetti era per l’autogestione operaia in un sistema di mercato. Perché no? Ben venga anche quella. Anticapitalismo di libero scambio.

  • Alessandro Colla

    Con qualche contraddizione, Gobetti, perché si era infatuato dei soviet come modello costitutivo che sono cosa ben diversa dagli spontanei kibbutzim israeliani. Probabilmente è vissuto troppo poco per chiarire alcuni aspetti della sua posizione filosofica. Autogestione operaia? Purché non sia la conseguenza di un esproprio forzato verso chi aveva aperto l’azienda con i propri capitali. Se gli autogestori sono anche imprenditori, quindi finanziatori, eredi o liberi acquirenti dell’impresa, non credo che vi siano ostacoli giuridici perfino in un contesto burocratico asfissiante come il nostro. Se mai la burocrazia renderebbe difficile la continuità dell’impresa stessa perché il tempo per lavorare e per gestire diventerebbe di diciassette ore giornaliere per otto giorni settimanali. A meno che non si assuma un amministratore delegato il cui costo renderebbe poco appetibile l’essere proprietari – operai di una ditta produttrice. Probabilmente, burocrazia e fisco sono meno asfissianti in Israele che da noi o nell’Europa del sud in genere; Malta esclusa, credo.

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