Don Giovanni

A morte gli evasori?

Ci risiamo. Si parla di diritto penale, si accenna a Cesare Beccaria e si dicono sciocchezze. Mi chiedo: quanti di quelli che lo citano a destra e a manca l’hanno davvero letto, quel pensatore milanese umanamente piuttosto antipatico? Forse ricordano qualcosa che hanno imparato, o soltanto orecchiato, a scuola. Beccaria, quello che si è battuto contro la pena di morte, che ebbe come nipote Alessandro Manzoni! (Il quale – questo però di solito a scuola non si dice – parlando con la madre Giulia manifestava qualche perplessità sulle teorie del nonno). E fin qui, niente da obiettare. Ma poi si aggiunge, molto spesso, che fu lui a sostenere la funzione rieducativa della pena, secondo un principio che oggi è diventato di dominio comune nel campo della criminologia. Dispiace di leggere qualcosa di simile, anche se soltanto di sfuggita e in modo non del tutto esplicito, in una recensione di un’illustre  studiosa del diritto greco antico a proposito di un recente, bellissimo saggio di Umberto Curi  (“Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia”). Si rimane poi addirittura basiti quando, a commento del recente giudizio della Corte di Giustizia Europea sull’articolo 4 bis del regolamento carcerario italiano, qualcuno arriva a sostenere che Beccaria era contrario anche all’ergastolo, per la sua disumanità. Verrebbe voglia di replicare, come Renzo all’avvocato Azzeccagarbugli: “Ma dottore, come l’ha intesa? L’è proprio tutta a rovescio!”. Proprio così. Andiamo a rileggerle bene, quelle pagine dello scritto “Dei delitti e delle pene”.  La pena di morte viene avversata non tanto per motivi umanitari, quanto perché, come deterrente, è poco utile. Beccaria, infatti, è un illuminista. Per lui le pene devono avere, più che un carattere sanzionatorio, retributivo, una funzione dissuasiva. E’ sulla linea non soltanto del contemporaneo pensiero utilitaristico di Bentham, di lui poco più giovane, ma, andando molto indietro nel tempo, anche su quella  di  Seneca nel “De ira”, laddove si dice che bisogna punire non “quia peccatum est”, perché  è stato commesso un delitto, ma “ne peccetur”, per indurre a non compiere il delitto. In somma, la pena come deterrente, diremmo noi, non come retribuzione ( non parlerei di vendetta, che è un concetto extra-giuridico, puramente psicologico).  A questo punto, l’ergastolo è preferibile alla pena di morte perché fa più paura, a causa della sua estensione, in  conseguenza della certezza di non uscire più dal carcere, per tutta la vita; mentre l‘intensione della morte, che dura solo un attimo, risulta più tollerabile. Non giurerei che le cose stiano proprio così, e ho l’impressione che le obiezioni di Alessandro Manzoni vertessero proprio sulla fragilità di questo ragionamento ( potrei sbagliarmi: se qualche studioso manzoniano mi leggesse potrebbe venirmi in aiuto, ma non credo proprio di meritare tanto onore). Mettiamo per un momento che sia corretto. Allora, però, l’ergastolo è più crudele della morte, non più umanitario! A patto che sia un ergastolo vero, come Beccaria lo intendeva, senza aspettative di vedersi commutata la pena per buona condotta, e magari  di poter riconquistare, prima o poi, la libertà!Non voglio entrare nel merito del giudizio della Corte Europea, che, se non erro, la Corte Costituzionale italiana ha fatto proprio. Capisco le ragioni di chi fa notare che il 4 bis  e il 41 bis sono stati escogitati per combattere un fenomeno di grave pericolosità sociale come la criminalità mafiosa, il cui carattere è del tutto diverso da quella comune. Rimanendo su un piano utilitaristico – come quello di Beccaria – si potrebbe far notare che il 4 bis ha dato qualche buon risultato, inducendo alcuni condannati (pochi, a dire il vero) per crimini mafiosi a collaborare con la giustizia, per avere sconti di pena. La Mafia ha subito, per conseguenza, più di un duro colpo. Qualcuno potrebbe obiettate che, sempre secondo il pensiero di Beccaria, una giustizia disposta a ricevere aiuto dai suoi nemici, i criminali che dovrebbe combattere, si scredita. Vero: ma qui siamo lontani dalla legislazione sui collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, che ha sì permesso di smantellare il terrorismo, ma ha anche provocato tanti guasti (primo fra tutti, l’infamia del processo a Enzo Tortora). Qui si gioca su una sorta di ricatto: “Niente forti sconti di pena, ma se spifferi tutto quello che sai, il tuo ergastolo non sarà più di tipo ostativo, cioè assoluto, senza remissione, ma diventerà un ergastolo normale, suscettibile di attenuazioni”. Capisco anche le ragioni di chi invece plaude alla controversa opinione. E’ chiaro che, se si sostiene che la pena deve essere strumento di rieducazione, al fine del reinserire nella società chi ha sbagliato, dopo un percorso di ravvedimento e di espiazione, una carcerazione perpetua non ha senso.  A patto che, ancora una volta, non si tiri in ballo Beccaria, se non  si vuol finire in  contraddizione. Perché Beccaria, per gli irriducibili che costituiscono un pericolo per la stabilità istituzionale (quali sono oggi i mafiosi che non vogliono collaborare e dal carcere continuano a mantenere contatti con le loro cosche per programmare altre azioni criminali), non esita a proporre la pena di morte.Io, da anarchico, non amo il sistema carcerario e lo vorrei ridotto al minimo indispensabile. Sarebbe bello poterlo eliminare del tutto, ma non sono così ingenuo da credere che, abbattuto lo Stato e il Capitalismo (le due facce della stessa medaglia; e cerchiamo di non confondere Capitalismo e mercato), il problema si risolverebbe da sé. Che lo Stato sia per molti aspetti criminogeno, è un dato di fatto; che quello di cui è fatta l’Umanità, come diceva Kant, sia un legno storto, è un altro dato di fatto. I criminali esisteranno sempre, in qualsiasi regime e assetto sociale. Che sia stata la società a guastare l’uomo, in sé buono, lasciamolo credere a Rousseau: quel Rousseau che Voltaire irrideva, dicendo che a leggere i suoi scritti gli veniva voglia di mettersi a camminare a quattro zampe, da buon selvaggio. Fino a venticinque anni anche Leopardi cadde nello stesso abbaglio, pensando che fosse la ragione ad aver reso infelice l’uomo, allontanandolo dalla Natura. Poi si accorse che è la Natura a essere matrigna. Chi crede in un Dio infinitamente buono è costretto a professare il mito del Peccato Originale, in conseguenza del quale non solo l’Uomo, ma tutta la Natura sarebbe caduta in uno stato di corruzione.Io credo che, in una società anarchica, tendenzialmente quello che oggi è il sistema del diritto penale dovrebbe sfociare in qualcosa di simile al nostro diritto civile, dove l’azione giudiziaria si instaura per impulso di parte e la sanzione mira al risarcimento del danno. Al centro, quindi, sarebbe la vittima, non il colpevole, come invece avviene nella teoria della pena come strumento di rieducazione del reo. Nessuno poi potrebbe vietare che associazioni umanitarie si prodighino per riportare sulla retta via quelli che hanno commesso delitti; ma questi interventi non avrebbero nulla che fare con il sistema sanzionatorio. Prevengo un’obiezione fortissima, alla quale confesso di non saper rispondere: com’è possibile risarcire la vittima in caso di omicidio o di aggressioni che le infliggano un danno fisico, o psichico, o d’altro genere, irrimediabile? Ammetto che problemi di questo genere rimangono per ora aperti, e solo un’esperienza che proceda per prove ed errori potrà portare a una soluzione, sempre provvisoria e migliorabile. Sapete che cosa  mi fa ridere in tutta questa faccenda? Che di solito chi plaude al giudizio della Corte Europea e della Corte Costituzionale, auspicando una revisione della legislazione italiana sull’ergastolo in nome di principi umanitari e una (in sé sacrosanta) depenalizzazione di tanti reati oggi puniti con il carcere, è il primo a invocare galera e manette per gli evasori fiscali. I reati fiscali sono diventati più gravi dei crimini di sangue. Molti cosiddetti “pentiti” , pur avendo sulla coscienza atroci delitti, se la son cavata con pochi anni di detenzione. A un evasore fiscale si vorrebbero infliggere fino a otto anni di prigione. Si scorda la funzione rieducativa della pena, sbandierata a favore dei delinquenti più pericolosi, e si ritorna all’idea della deterrenza, alla punizione “ne peccetur”. Qui sì siamo in linea con Beccaria! Se volessimo portare il ragionamento alle estreme conseguenze, potremmo arrivare a questa conclusione: 1) l’evasione fiscale è il peggior delitto, perché colpisce lo Stato sottraendogli le risorse di cui abbisogna per provvedere al bene comune;2)i delitti che mettono in pericolo la stabilità istituzionale vanno puniti con la morte;3) ergo, l’evasione fiscale va punita con la morte. Non mi meraviglierei che si arrivasse a qualcosa di simile. Quando vediamo un papa che rimbrotta chi converte al cristianesimo gli infedeli e predica la “conversione ecologica”, può accadere di tutto. Mala tempora currunt. 

Giovanni Tenorio

Libertino

6 pensieri riguardo “A morte gli evasori?

  • “…che fu lui a sostenere la funzione rieducativa della pena… “.
    Vabbè, pure io lo pensavo e a suo tempo fui qui rampognato, ma mica si può pretendere che tutti leggano il Beccamorto; del resto se pure l’autorevole Treccani lo sostiene, siamo tutti assolti.
    Per la cronaca: ho scaricato il pdf “dei delitti e delle pene” ed ad un esame sommario non se ne trova traccia, ma con una forzatura il concetto di base potrebbe benissimo essere quello.

    “…dispiace di leggere qualcosa di simile, anche se soltanto di sfuggita e in modo non del tutto esplicito…”
    Appunto: non è detto che il Becca latu sensu del concetto utilitaristico della pena non lo pensasse, ancorchè non l’abbia esplicitamente detto.

    • e.c. latO sensu

      Sul Manzoni (sedicente liberale, cattolico alle vongole poi scomunicato, probabile massone) a scuola non si dicono tante cose, ad es. cosa obiettò a Cristina Trivulzio, gran nobildonna che si occupava di infanzia abbandonata e della sua istruzione. Lascio a chi non lo sapesse il piacere della scoperta.

    • Se l’ergastolo deve essere senza sconti, come Beccaria proponeva (altrimenti il suo carattere estensivo, e per ciò stesso dissuasivo, verrebbe meno), non c’è spazio per il fine rieducativo della pena. Possiamo stiracchiare il testo del Milanese come vogliamo, ma non caveremo un ragno dal buco. Quanto al presunto cattolicesimo dell’illustre nipote, consiglio vivamente la lettura del poderoso saggio di Aldo Spranzi “Anticritica dei Promessi Sposi” , da cui esce l’immagine di un Manzoni ateo e nichilista, che nasconde il suo vero messaggio eversivo sotto la favola a lieto fine di Renzo e Lucia. In altri suoi saggi Spranzi non mi convince affatto. Non so se su Manzoni la sua tesi regga; ma è indubbio che le argomentazioni da lui proposte sono molto forti. Se poi, dopo averle ben meditate, si va a rileggere il romanzo, si ha l’impressione di non averci mai capito nulla, a dispetto degli indigesti apparati critici che le edizioni scolastiche ci ammanniscono, magari in un volume a parte; dimenticando che, a detta del Nostro, “di libri ne basta uno per volta, quando non è d’avanzo”.

  • Alessandro Colla

    Sempre che la frase di Manzoni sia vera, così come quella di Maria Antonietta sui pasticcini (Robespierre non era presente quando sarebbe stata pronunciata): il comportamento nella vita reale non è sempre coerente con il pensiero professato e divulgato. Come Rothbard sui neonati “abbandonabili perché fino a quel momento parassiti” o Hoppe sull’immigrazione. Ma tutto va affrontato considerando la mentalità corrente di un’epoca. Oggi il figlio del contadino può coltivare la terra senza essere analfabeta. I nostri campi possono essere coltivati da figli dei contadini che a differenza dei loro padri non sono analfabeti. E’ sul quel “nostri” che ci si dovrebbe focalizzare. Perché il vantaggio dei contadini di oggi è costituito dal poter essere proprietari della terra coltivata e non necessariamente braccianti di un latifondo che non è stato acquistato o occupato per la prima volta come proprietà di nessuno, bensì assegnato da un illegittimo governo. Probabilmente Manzoni, discendente dei nobili di Valsassina, era preoccupato di un qualcosa legato a possibili eredità; “nostra terra” in quel senso. Il socialismo trivulziano avrebbe portato all’esproprio delle terre che non sarebbero più state dei proprietari legittimi o ingiustamente assegnatari ma neanche dei braccianti o dei mezzadri. Sarebbe stato solo dello stato, quindi dei Savoia de facto. Inaffidabile, quindi, la marchesa di Sesto Ulteriano e di Belgioioso nelle sue iniziative apparentemente umanitarie ma finalizzate all’indottrinamento statalista e forzatamente unitarista. La sua fissazione per l’unità d’Italia, rispetto a una più equilibrata visione confederale di Cattaneo, ne costituisce ampia prova.

    • Acuta analisi.
      Se si imposta “manzoni vecchio” (su gogol-immagini) si ottengono foto di una persona che appare cattiva e incarognita con se stessa e il mondo intero. Se da giovane era un bell’uomo, indubbiamente è invecchiato malissimo. Per dipingere o disegnare lo Scrooge di Dickens, questo vegliardo parmi perfetto. In particolare ho trovato e caricato questa immagine, che dà tutta un’idea ahimè di meschinità (e anche un po’ di ripugnanza).

      http://img18126.imagevenue.com/img.php?image=088670784_manzoni_122_708lo.jpg

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      Acuta analisi.
      Se si imposta “manzoni vecchio” (su gogol-immagini) si ottengono foto di una persona che appare cattiva e incarognita con se stessa e il mondo intero.
      Da giovane era un bell’uomo, ma indubbiamente è invecchiato malissimo. Per dipingere o disegnare lo Scrooge di Dickens, questo vegliardo parmi perfetto. In particolare ho trovato e caricato questa immagine, che dà tutta l’idea ahimè di meschinità (e anche un po’ di ripugnanza)

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