Don Giovanni

Un ossimoro (con valore legale): la scuola di Stato decentrata.

Ha portato qualche beneficio l’introduzione delle autonomie regionali nel 1969? Al Sud sicuramente no, se è vero che da allora il divario tra Nord e Sud, anziché ridursi, è cresciuto. Alla tutela del territorio ancora una volta no, se è vero che in tutta la storia d’Italia, dall’epoca degli Etruschi a oggi, non si sono mai visti tanti scempi come da quando alle regioni sono state assegnate competenze in quell’ambito (anche se è vero che gli scempi sono cominciati molto prima, dall’Unità in poi, soprattutto dopo la presa di Roma, la Città Eterna immediatamente devastata da una speculazione edilizia in cui ebbero parte gli stessi preti che esecravano lo Stato  aggressore e sacrilego).

In altri campi, non saprei. Forse le regioni del Nord qualcosa di buono hanno fatto. La sanità lombarda non è per niente male, tant’è vero che attira pazienti un po’ da tutt’Italia, specialmente dal Meridione, dove, invece, fatta qualche eccezione, è piuttosto scadente. Per il resto, mi pare che non ci sia di che rallegrarsi. Le riforme che hanno cercato di allargare le competenze regionali sono state un disastro. La cosiddetta legge Bassanini e la successiva riforma del titolo V della Costituzione, voluta dalla sinistra per sottrarre consensi alla Lega (a quei tempi ferocemente “federalista”, con esplicite velleità di secessione) hanno causato un contenzioso tra potere centrale ed enti locali che la Corte Costituzionale ha cercato di dirimere, con atteggiamenti contraddittori. In un primo tempo sembrava propensa a interpretare l’autonomia allargata nel senso più ampio possibile; nelle sentenze successive ha fatto macchina indietro. Interessanti le sentenze riguardanti la scuola. Da principio sembrava che, sulla base base della riforma, le regioni fossero legittimate a intervenire addirittura nella definizione dei programmi scolastici, di concerto con il Ministero dell’Istruzione, in omaggio al principio della “legislazione concorrente”, dove le competenze sono divise tra governo centrale e governi locali. Poi il potere delle regioni in materia scolastica è stato reinterpretato in senso più riduttivo. Inevitabile. Facile sproloquiare, in astratto, di legislazione concorrente. Difficile stabilire, in concreto, fino a che punto arriva la competenza degli organi centrali e dove comincia quella degli enti periferici, se una legge-quadro non stabilisce “a priori” i confini. Che ne sarà dell’autonomia speciale che tre regioni del Nord, due in seguito a referendum, hanno richiesto al governo nazionale? Ho l’impressione che ne uscirà il solito pateracchio. Le idee sono poche e ben confuse. Chi ha votato sì in quei referendum pensava che, in caso di vittoria, si potesse richiedere la restituzione del cosiddetto “residuo fiscale”, cioè della differenza tra quanto i cittadini di una regione pagano allo Stato attraverso l’imposizione tributaria e quanto lo Stato restituisce alla regione attraverso l’erogazione dei servizi ai cittadini. Doveva essere subito chiaro che questo non sarebbe stato mai concesso, perché contrario al principio perequativo per cui chi è economicamente più forte deve devolvere una parte della sua ricchezza a sostegno dei territori più svantaggiati. E’ la cosiddetta “solidarietà”, che, in forme diverse, ogni sistema liberal-democratico in qualche modo ha fatto propria. Tramontata questa idea, ora, se ho ben capito, la restituzione del “residuo fiscale” viene interpretata in altro modo: se una regione riceve finanziamenti per i servizi che eroga secondo le nuove competenze allargate in base alla “spesa storica” (cioè nella stessa misura di quando era il governo centrale a provvedere direttamente a quei medesimi servizi) e, grazie a una gestione più efficiente, riesce a conseguire un risparmio, tale somma residua,anziché  essere restituita allo Stato,  deve rimanere nel bilancio regionale, per finanziare interventi che possano migliorare nel suo complesso il governo locale, a beneficio dei cittadini. E’ una posizione già più ragionevole, perché non toglie nulla alle “quote di solidarietà” in vigore prima della riforma. Inoltre questa riserva delle somme risparmiate  può essere considerata una sorta  di stimolo e di premio per una gestione virtuosa dei finanziamenti assegnati in base alla “spesa storica”.

L’autonomia scolastica, che fine ha fatto? Quando i leghisti erano ancora il partito della secessione padana, come programma massimo, e del cosiddetto “federalismo”, come programma intermedio, parlavano di reclutamento dei docenti su base regionale. Sotto sotto, volevano cacciare gli insegnanti terroni. E se nelle regioni dei polentoni non ci sono abbastanza insegnanti per coprire i posti disponibili? In questo caso si permetterà una migrazione di terroni rigorosamente controllata? Non ho mai capito come si intendesse risolvere questo problema. Si pretendeva anche un’ampia competenza regionale nella definizione dei programmi. Quali materie si volevano introdurre? Capisco che, nelle scuole professionali ( per le quali la competenza sussidiaria delle regioni era riconosciuta fin dalle origini) sia opportuno tener conto della vocazione economica di ogni territorio, delle potenzialità e dei problemi relativi all’industria, all’artigianato, al commercio, all’agricoltura, al mondo del lavoro nel suo complesso. Ma nelle altre scuole? Introduciamo lo studio del dialetto? A Bergamo insegniamo il bergamasco, a Milano il milanese (dove ormai non lo parla più nessuno; in certi quartieri si parla piuttosto il cinese)? Mi sembra una ridicolaggine. Insegniamo la Storia locale? Benissimo, ma si fa già. Quando si parla della battaglia di Clastidium, in cui i Celti tanto cari a Bossi, nell’anno 222 a.C. si presero una bella batosta dal console romano Marco Claudio Marcello, la Storia Romana viene inevitabilmente a sovrapporsi alla Storia locale (Clastidium è l’attuale Casteggio, nell’Oltrepò Pavese, i cui vigneti danno un ottimo vino bianco). Quando si parla di Federico Barbarossa si deve parlare di Milano, Como, Lodi, Legnano. Quanto alla Matematica, alla Fisica e alle altre materie “forti”, se Dio vuole sono le stesse, esattamente le stesse, non solo in tutt’Italia, ma in tutto il mondo. Molti a sentir parlare dell’autonomia allargata in campo scolastico si stracciano le vesti. Aumenterebbe -dicono- il divario tra Nord e Sud! Poveretti, non si rendono conto che il divario esiste già: In un certo senso l’autonomia scolastica si è costituita da sé, senza bisogno di interventi legislativi. Le prove INVALSI hanno accertato che, mentre nel Nord la preparazione media degli studenti delle Scuole Superiori è in linea con quella degli altri Paesi europei, nel Sud è assai carente, al punto che si può parlare di analfabetismo funzionale. Una preside di non so più quale istituto del Sud è arrivata a a svalutare gli esiti delle prove INVALSI sostenendo, senza temere di cadere nel ridicolo, che i risultati degli scrutini d’esame dopo cinque anni di studio valgono di più di una prova somministrata da un organismo esterno. Ma allora com’è possibile che nel Nord i risultati delle prove INVALSI coincidano, a grandi linee, con quelli delle pagelle scolastiche? Sappiamo tutti come vanno le cose in certe scuole del Sud, nelle località marine. A inizio maggio, anche se ufficialmente l’anno scolastico è ancora in corso – e anzi ci si dovrebbe impegnare di più in vista degli scrutini finali – molti alunni si considerano già in vacanza, disertano le lezioni, vanno in spiaggia, si godono il bel sole e fanno i primi bagni. Gli insegnanti chiudono non un occhio, ma tutt’e due. Ho l’impressione che qualcuno di loro se ne vada anche lui in spiaggia con i suoi discepoli. Altro che autonomia scolastica, a questo punto bisogna ritornare al vecchio accentramento (è chiaro che qui dismetto il mio abito di anarchico e mi metto nei panni di uno statalista).

Dopo l’Unità d’Italia la scuola fu organizzata, come tutto il resto dell’amministrazione pubblica, sul modello napoleonico. Tutto veniva deciso dal centro. I Provveditorati agli Studi erano la longa manus del Ministero della Pubblica Istruzione così come i Prefetti quella del Governo nel suo complesso, e in particolare del Ministero degli Interni. Solo per l’istruzione elementare fu lasciata l’ autonomia finanziaria ai comuni (il che produsse qualche squilibrio tra comuni ricchi e comuni poveri). Va riconosciuto che, con tutte le sue pecche, il sistema riuscì a ridurre, nel giro di pochi decenni, la dolorosa piaga dell’analfabetismo, molto più grave che nella maggior parte degli altri Paesi europei. Qualcuno ha detto che era un sistema antimeritocratico. Balle! Solo negli anni Cinquanta del secolo scorso è diventato quasi impossibile bocciare nelle Scuole Elementari. Solo con la Scuola Media Unica anche nei tre anni successivi bocciare i somari è diventato problematico. Solo con le riforme successive al Sessantotto anche le Scuole Superiori hanno di molto annacquato la loro antica severità. Le riforme degli esami finali,da allora, sono state una peggiore dell’altra. La ciliegina sulla torta l’ha messa l’attuale ministro Bussetti. Che cosa potrà fare il prossimo ministro? Abolire del tutto gli esami? Forse sarebbe meglio, a questo punto, abolire del tutto la scuola! Bisogna tornare all’accentramento vero e all’antica severità. Gli esami devono vertere su tutte le materie, e non riguardare soltanto il programma dell’ultimo anno. Le commissioni degli esami finali devono essere formate da insegnanti che vengono da lontano, in modo da non poter conoscere gli studenti che dovranno esaminare. Al Nord commissioni che vengono da Sud, al Sud commissioni che vengono dal Nord. State pur sicuri che, in questo modo, nessuno farà terminare di fatto a maggio l’anno scolastico per andare in spiaggia. Il dislivello fra la preparazione dei diplomati del Nord e quella dei diplomati del Sud scomparirebbe nel giro di pochi anni. E’ chiaro che un simile modello rispecchia il più feroce statalismo. Io aborro lo statalismo, non ho bisogno di dimostrarlo. Ma tra uno statalismo ciabattone e uno statalismo serio preferisco lo statalismo serio. Sapete che abolirei da un giorno all’altro il valore legale dei titoli di studio e vorrei scuole private in concorrenza tra loro, ciascuna con i suoi programmi e i suoi insegnanti reclutati autonomamente secondo criteri insindacabili. Se però il valore legale dei titoli di studio deve rimanere, si faccia almeno in modo che i risultati di una scuola del Nord e di una del Sud siano equivalenti non solo sulla carta, ma nella realtà. 

Giovanni Tenorio

Libertino

4 pensieri riguardo “Un ossimoro (con valore legale): la scuola di Stato decentrata.

  • Premetto che questo mio commento è inutile, perché l’articolo contiene molte delle mie stesse tristi osservazioni.

    Penso sia inutile porsi il problema delle autonomie regionali in un contesto statale-nazionale: nel peggiore dei casi sarà una pagliacciata formale ma non sostanziale, nel migliore (ma la prospettiva resta cupa) avremo il modello dello Stato replicato in scala geografica ridotta, ma altrettanto oppressivo nei confronti dell’individuo.

    Non riesco proprio a trovare nulla di buona nella sanità lombarda: certamente qualche risultato operativo c’è, ma credo sia il minimo, considerando che assorbe una spesa pubblica smisurata. Inoltre costituisce il paradigma del moderno statalismo subdolo, quello basato sul pilastro dello stato etico e sulla invenzione della “convenzione”: ovvero esistono privati più privati a cui è concesso di lavorare per clienti che non pagano (o pagano una quota minoritaria del costo del servizio), tanto le tabelle regionali garantiscono che ogni servizio documentato venga remunerato. Questo genere poco simpatici equivoci: esami prescritti per compiacere il paziente da medici stressati, manager impegnati più sul fronte dell’ottenimento delle convenzioni che sul valore scientifico delle attività svolte, interesse a cavalcare debolezze psicologiche (il grande affare della prevenzione)… in somma: tutte quelle anomalie e distorsioni che nascono dal separare beneficiario e pagatore del servizio.

    Sulla scuola è come sparare sulla crocerossa (a proposito: anche sul quel tipo di convenzione ci sarebbe da discutere). Mi limito alla scuola di Stato, perché se dovessi parlare delle paritarie, dovrei ripetere i concetti noiosi che ho già elencato parlando di Sanità.

    Come posso dimenticare l’ingenua e sincera espressione del collega di topografia (si, per 2 anni sono stato servo dello stato, per evitare una servitù maggiore: il servizio militare), proveniente da una scuola per geometri del Sud, quando venne a sapere che le attività ordinarie pomeridiane (“topografia” è una delle materie che richiede numerose ore consecutive, per le campagne di rilievo sul territorio) non sono solo previste sulla carta, ma richiedono la presenza effettiva di alunni e insegnanti?

    Non ce [grazie a Don Giovanni che ha stroncato in tempo il “c’è” precedente] l’ho con il Sud: anzi pur non negando che la differenza tra i risultati (mediati) di apprendimento tra Nord e Sud esiste e ammettendo che il livello delle scuole del Nord sia più alto (mediamente), non mi sento di condannare il Sud. Una volta che questo mondo viene visto dall’esterno, appare evidente che “fare per buona volontà”, cosa senza dubbio lodevole e innegabile (ci sono insegnanti validi), ma senza nessun tipo di reale controllo o dipendenza tra risultati e posto fisso e stipendio, se elevato a metodo universalmente invocabile da tutti, è molto più vicino a “non fare” che a “fare per necessità (di mercato, di competitività, di conquista del cliente, …)”.

    Capita quindi di vedere una maestra (di “quelle brave”, ma che si assenta per 3 mesi per una frattura composta del mignolo del piede o che prende le ferie, maturate anche nel periodo estivo, in piena attività didattica), farsi seria e preoccupata al solo sentir nominare la parola “Invalsi”, che solo lontanissimamente ricorda la realtà selettiva con cui normalmente qualsiasi lavoratore dovrebbe confrontarsi.

    In questo contesto, il problema del regionalismo è davvero un piccolo problema, che si risolverebbe, come scrive Don Giovanni, con l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

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  • “Le commissioni degli esami finali devono essere formate da insegnanti che vengono da lontano, in modo da non poter conoscere gli studenti che dovranno esaminare.”

    Probabilmente ora sarà cambiato per risparmiare sulla diarie, ma un tempo era così: alla mia “matura” non c’era un locale manco a cercarlo col lanternino.
    Prima materia scelta da me: inglese; professore esaminatore di Sciacca che parlava inglese da cane (in confronto a lui, io parlavo come un madrelingua), ma era simpaticissimo ed invitò tutti ad andarlo a trovare che ci ospitava a casa sua sul mare. Degli altri non ricordo nulla, tranne che erano tutti made in sud.

  • “bocciare i somari è diventato problematico”.

    Il problema è appunto l’einaudiana e sacrosanta abolizione del valore legale del titolo di studio. Fintanto che tale valore persiste, cercare di non negare la possibilità ai poveracci di svolgere anche un umile compito come netturbino (in cui serve la licenza media) mi pare doveroso. Altrimenti significa agevolare la via della delinquenza e nel profondo sud arruolamento nella mafia/camorra.

    Ma poi Don Juan ha visto “I sette re di Roma”? il bastardo maestro Sordi che fa di tutto per fregare il poveraccio Totò che cerca una licenza elementare per sopravvivere credo che non piaccia a nessuno. Uno spunto per la riflessione.

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    • EC titolo corretto: “Totò e i re di Roma”

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