Don Giovanni

Malinconico tramonto

“Pecunia non olet”, il denaro non puzza, pare  abbia risposto l’ imperatore Vespasiano a chi gli rinfacciava di aver stabilito una tassa sui prelievi di urina dei cessi pubblici da parte dei “fullones”, i lavandai, che se ne servivano per il lavaggio dei panni (contiene ammoniaca). Aveva perfettamente ragione.
Quando serve, il denaro è sempre  benvenuto, se non deriva da attività illecite. Quella di Vespasiano, tecnicamente, era una tassa, non un’imposta. Se i cessi fossero stati privati, il proprietario avrebbe potuto fare la stessa cosa: se vuoi la mia piscia, fai il piacere di pagarmela.

Ciò detto, non riesco proprio a capire la clamorosa levata di scudi contro il sovrintendente del Teatro alla Scala Pereira, che sembra ben disposto ad accettare un lauto finanziamento dal governo di Riad in cambio di un posto per i sauditi nel Consiglio di Amministrazione. Qualcuno arriva addirittura a parlare di sacrilegio o qualcosa di simile: guai a contaminare la nostra cultura con denaro proveniente da un regime dittatoriale, dove i diritti umani sono conculcati, la donna è discriminata, e via di seguito. Sciocchezze enormi. Non è che rinunciando a quel denaro si induca il regime a essere più tollerante. Piuttosto è vero il contrario. Se la Scala porterà da quelle parti i suoi allestimenti e aprirà una scuola di danza, come pare sia stato chiesto, contribuirà ad aprire una breccia nell’oscurantismo colà dominante. Nell’Opera cantano le donne (non è più tempo di castrati, semmai di orridi sopranisti), e nel balletto classico le ballerine hanno la stessa importanza dei ballerini, se non maggiore.

In realtà, il problema della Scala è un altro. A Pereira bisogna riconoscere il merito di saper trovare mecenati disposti ad allargare generosamente i cordoni della borsa, mentre i finanziamenti pubblici diventano sempre più sparuti. Ben vengano anche i soldini di Riad! Peccato che poi, da quando Pereira è in carica, la sala del Piermarini rimanga molto spesso desolatamente vuota. Mi dicono che, alla prima della “Kovancina”, il direttore Gergiev, girandosi verso la platea e vedendola piena di buchi, si sia lasciato sfuggire una mezza bestemmia in russo. Vi assicuro che nell’allestimento della stagione 1966-67, con Gavazzeni sul podio, Nicolai Ghiaurov e Irina Arkipova tra i protagonisti, al cui esordio ebbi l’ onore di essere invitato, la platea era traboccante di pubblico.
Che cos’è mai successo? L’ Opera interessa sempre meno i giovani. Si tenta di attirarli con regie “innovative”, in realtà obbrobriose, imitando  orridi modelli teutonici, e il risultato è questo. Il pubblico ormai è formato da canizie e calvizie. Il grande Quirino Principe ha detto che è una gioia vedere sempre più giovani(e sempre più belle ragazze, aggiungo io) nelle orchestre e sempre più vecchi tra il pubblico.

Qualcuno dice che è colpa della scuola. Andiamoci piano. È vero che il sistema scolastico italico, escogitato da pensatori legati all’idealismo di De Sanctis, Croce e Gentile, e terribilmente ignoranti di musica, ha quasi del tutto escluso l’arte dei suoni dai programmi di insegnamento, a parte i Conservatori e le scuole specialistiche. Ma sappiamo tutti che la scuola ha il magico potere di far odiare per tutta la vita le cose belle. Schiere di ex liceali odiano a morte Dante e considerano Manzoni un rompiballe bigotto. Ricordano la grandissima Saffo solo come una lesbica, non come una delle voci più sublimi della poesia di tutti i tempi. Non parliamo della Storia dell’Arte: sanno a malapena chi sono Giotto, Leonardo, Michelangelo…
Il fatto è che se il pubblico snob va volentieri a mettersi in mostra a Bayreuth, Monaco, Salisburgo per assistere ad allestimenti con regie vomitevoli, non scende certo a Milano a vedere le stesse cose. Una volta gli stranieri arrivavano per godersi Abbado e Muti, in allestimenti creati da personaggi come Giorgio Strehler, Ezio Frigerio, Franca Squarciapino (ah, quel “Don Giovanni” con Thomas Allen, che mi fece piangere di gioia!).
La Scala ha perduto la sua cifra inconfondibile, è diventato un teatro di provincia. Quando i mecenati, quelli che oggi barbaramente vengono chiamati “sponsor”,si accorgeranno di finanziare sale vuote, chiuderanno le loro borse e si rivolgeranno altrove. Quello che pomposamente viene ancora definito “el primm teater del mond” chiuderà i battenti. I pochi vecchietti che ameranno ancora l’Opera si consoleranno andando al Teatro delle Marionette di Carlo Colla e Figli (una gloria milanese che i milanesi neppure cacano, mentre quando va in trasferta magari il “New York Times” ne dice mirabilia: nemo profeta in patria). Allestimenti operistici con le “teste di legno”: commoventi, fiabeschi, hanno il sapore del buon tempo antico. Più poetici di quelli, giustamente famosi, di Salisburgo.
Speriamo che non si snaturino anche loro. E poi, estinta l’ultima generazione di melomani?Il resto è silenzio…

Giovanni Tenorio

Libertino