Don Giovanni

Proprietà intellettuale e libertà

Bisogna sempre avere qualche diffidenza per chi proclama di combattere per la libertà. La libertà di chi? La libertà propria? Combattimento più che legittimo, ma egoistico. La libertà di tutti? Molto bene, non ci siamo soltanto noi, ci sono anche gli altri. La libertà di chi non solo la pensa diversamente da noi ma, se potesse, sopprimerebbe la libertà nostra e di tutti quelli che la pensano come noi? Qui le opinioni si dividono, ma il vero liberale (non è necessario essere anarchici, cioè liberali coerenti fino in fondo) risponderebbe soltanto di sì. Ecco perché, ad esempio, vietare l’apologia del Fascismo o la negazione della Shoah è un provvedimento illiberale. Innegabile che il Fascismo sia stato esecrabile proprio per aver voluto risolvere la libertà individuale in quella dello Stato etico; così come ogni persona di buon senso non può che inorridire nel leggere che gli ebrei nei campi di concentramento non venivano mandati nelle camere a gas, ma a fare la doccia. Ma anche opinioni perverse come queste devono avere diritto di cittadinanza. Chi le disprezza – e ne ha le più sacrosante ragioni – ha il dovere morale di contrastarle, opponendo idee a idee, ragionamenti a ragionamenti, fatti a fatti. Ma non deve invocare, contro i suoi avversari, il rigore della legge penale. Solo in questo modo il liberalismo dimostra la sua superiorità. Invocare multe e manette contro i nemici della libertà, anche quando non compiono nessun atto eversivo di violenza, significa farne dei martiri. E si arriva al paradosso che i negatori della libertà, nel momento in cui la loro libertà è soppressa in base a una legge democratica (perché approvata da una maggioranza) ma illiberale(perché contraria al principio della libertà assoluta), diventano propugnatori della libertà di parola. Fanno proprio un principio liberale indiscutibile, anche se, una volta che ne avessero la possibilità, sarebbero i primi a negarlo verso chi adesso li osteggia. In somma: per il liberale vero dovrebbe sempre valere, nei confronti degli oppositori, anche i più accaniti e i più biechi, il motto attribuito (forse erroneamente, ma questo conta poco) a Voltaire: “Non la penso come voi, ma mi batterò fino alla morte perché possiate esprimere le vostre idee”.

In questi giorni il Parlamento Europeo è chiamato a decidere su una questione che vede le parti in lotta appellarsi entrambe ai principi di libertà. Ognuno dichiara di battersi per la libertà di tutti, in realtà pensa soltanto alla propria. Si tratta della vecchia e tormentata questione del “copyright” che le grandi piattaforme internazionali, tutte quante con sede legale negli Stati Uniti (Google, Facebook, Amazon…) violerebbero, consentendo la pubblicazione, da parte di utenti privati, di contenuti all’origine protetti dalle leggi che tutelano la proprietà intellettuale. Chi vorrebbe assoggettarle al pagamento dei diritti dice pressappoco così: “La pubblicazione dei contenuti è gratuita, ma in questo modo i colossi del Web incassano somme considerevoli grazie alla pubblicità e, appropriandosi i dati che gli utenti, spesso inconsapevolmente, forniscono, sono in grado di orientare idee, scelte e consumi. Si servono delle opere dell’ingegno altrui per incrementare i propri profitti, senza sborsare un centesimo”. Fin qui il ragionamento fila, anche se, come vedremo, è discutibile. Meno conseguente quest’altro appunto: “Accogliendo contenuti di ogni genere, spesso di cattiva qualità, le piattaforme causano un danno enorme alla libertà di pensiero e alla formazione di un’opinione pubblica consapevole, perché sottraggono pubblicità alla stampa e favoriscono il diffondersi dell’informazione peggiore, a scapito di quella più qualificata”. Qui si può obiettare: le notizie riportate dalla buona stampa che vengono diffuse gratis sulle piattaforme sono state, all’origine, pubblicate su quotidiani che in gran parte si finanziano tramite la pubblicità. Chi ripubblica quelle notizie non sottrae nessuna pubblicità a chi ne ha già beneficiato. Chi ha sempre avuto l’abitudine di comperare il giornale, continua a farlo. Chi non l’ha mai comprato si informa tramite il Web. Legge di preferenza le notizie spazzatura? Ma questa spazzatura ha un’origine esterna. Sono sempre esistiti i giornalacci. A suo tempo il grande Augusto Guerriero li bollò chiamandoli “quelli delle quattro S”: stipendi, salari, scandali e sesso come argomenti preferiti, che il pubblico più rozzo legge con avidità. Non risulta però che la cattiva stampa abbia mai ucciso quella buona. Quanto all’accusa che le piattaforme manipolerebbero la libertà di scelta dei fruitori, attraverso l’imbonimento pubblicitario, è la vecchia solfa di sempre: basta andare a rileggere “I persuasori occulti” di Vance Packard, un libro di cinquant’anni fa che ebbe molto successo e fa ancora discutere. Certo che siamo inclini a farci turlupinare. Nel Cinquecento la Chiesa faceva credere che comperando le indulgenze si guadagnasse il Paradiso. Altro che persuasione occulta! Ma, in ogni caso, persuasione benedetta, se servì a ornare la capitale della Cristianità di opere d’arte meravigliose. Se mi si consente l’accostamento, benedette le balle pubblicitarie se servono a incrementare i consumi, all’insegna della “crescita felice”.

I difensori dello “status quo” sono, manco a dirlo, le grandi piattaforme internazionali, che si appellano anch’esse ai principi di liberà. Naturalmente pensano alla propria libertà e ai propri profitti. Niente di male. Il profitto non è sterco del demonio. Se si fanno affari, l’economia nel suo complesso prospera, la ricchezza si diffonde e l’occupazione cresce. Fra i difensori ci sono anche coloro che si sono sempre battuti contro il “copyright” e hanno, fra l’altro, sconfitto le manovre delle grandi case discografiche, grazie allo scambio di contenuti musicali “peer to peer”. Ricordate quanto costavano una volta dischi e CD? Ora li vendono a prezzi stracciati. I pirati digitali sono benefattori dell’umanità, anche se la loro battaglia era guidata semplicemente dall’interesse personale. Inevitabile, quindi, che contro la legge sul “copyright” in discussione al Parlamento Europeo sia schierato il Piratenpartei tedesco. Ci stupiamo se anche i Cinquestelle nostrani sono sulla stessa posizione? A parte la loro proclamata “libertà di Web” nel nome della Dea Democrazia, non dobbiamo dimenticare le loro radici fondamentalmente anticapitalistiche. Probabilmente vedono il”copyright” come frutto perverso del sistema economico in cui viviamo. Fin qui hanno ragione. Il guaio è che confondono capitalismo e mercato. E il capitalismo di oggi, forse il capitalismo di sempre, con il mercato ha che fare solo in minima parte. Per il resto è ammanicato con lo Stato, che lo sovvenziona e lo protegge. Il “copyright” è uno degli strumenti di protezione più acuminati.
Il problema sta tutto qui. E’ un problema di libertà senza aggettivi possessivi, né la mia né la tua né la sua. Libertà punto e basta. Il problema, che già più volte abbiamo trattato, della proprietà intellettuale. Che non solo non dovrebbe essere estesa ai contenuti delle piattaforme internazionali, ma dovrebbe essere abolita. Ha la stressa funzione dei dazi e delle barriere doganali. Serve a restringere la concorrenza. Aiuta il capitalismo ma azzoppa il mercato. Sarebbe da abbattere anche se fosse benefica (ma benefica non è). Per quale motivo? Perché “proprietà intellettuale”, come tante altre invenzioni giuridiche (pensiamo ai famigerati diritti-doveri) o politiche (Giustizia e Libertà, Liberi e Uguali, ecc.) è un’espressione priva di significato. Quando un’idea esce dalla mia testa e diventa di pubblico dominio, in che senso ne sono ancora proprietario? Chi la fa sua e se ne serve non mi ruba proprio niente. L’idea rimane ancora nella mia testa. Non è come se lascio la mia auto al parcheggio e uno me la porta via. La proprietà ha un senso solo laddove i beni sono scarsi. Ma, vivaddio, le idee non sono scarse. Il Teorema di Pitagora è merce scarsa? Tutti lo possono imparare, senza rubare nulla a nessuno, e se Pitagora potesse ritornare in vita, sarebbe ben contento di vedere che la sua scoperta è ancora viva e vegeta, e si guarderebbe bene dal pretendere una “royalty” come compenso della sua fatica (se è vero che l’ha copiato dagli Egizi, non ha certo pagato i diritti d’autore al Faraone). Volete una prova inoppugnabile che il principio della proprietà intellettuale è un mostro giuridico? Se fosse vera proprietà, durerebbe in eterno e sarebbe trasmissibile agli eredi, ad infinitum. Invece ha una durata limitata. Sarebbe come se la mia auto rimanesse mia solo per cinque anni, e poi diventasse pubblica. Con una sostanziale differenza: che la mia macchina non può diventare di tutti; anche se così fosse, potrebbe essere usata solo a turno. Invece le idee, una volta uscite dalla mia testa e rese pubbliche, sono proprio di tutti, e possono essere oggetto di studio, di impiego e di manipolazione in qualsiasi momento da parte di chicchessia. Chissà quanti poveri studenti in questo momento stanno sudando sul Teorema di Pitagora.

Giovanni Tenorio

Libertino

6 pensieri riguardo “Proprietà intellettuale e libertà

  • Sul copyright penso che se un’idea esce dalla testa di un tale e diventa di pubblico dominio, è anche giusto che il tale sia ricompensato se è qualcosa di utile, creativo, innovativo. In fondo è proprio questo che fa la legge, facendo poi diventare l’idea di pubblico dominio dopo un certo numero di anni.

    Comunque copyright e copyleft possono benissimo coesistere, facendo anzi risaltare meglio i creativi generosi e, qualora essi siano davvero meritevoli, donando loro spesso un ritorno di immagine e un corrispettivo economico di sicuro interesse (es. il mondo di Linux).

    • Io scrivo un romanzo. Vado da un editore e gli dico:”Quanto mi dai se questo romanzo ti piace e accetti di pubblicarmelo?” L’editore apprezza e pubblica, con questi patti: oltre al compenso per l’acquisizione del testo, l’editore riconoscerà all’autore una percentuale su ogni copia venduta; l’autore, da parte sua, si impegna a non cedere il testo ad altri editori. Fin qui siamo all’interno delle canoniche regole contrattuali. Se una delle parti viola i patti, ne deve rispondere a termini di legge. Ma se, una volta pubblicato il testo, un altro soggetto ne compera una copia e la riproduce in più esemplari a proprie spese, per uso proprio, per regalarli o per venderli, non si vede che furto abbia compiuto e in che modo l’autore venga defraudato. Il lavoro dell’autore non è già stato remunerato dal suo editore? Chi ne ristampa una copia non l’ha forse pagata remunerando editore e autore? (Se gli è stata regalata, l’avrà pagata qualcun altro). Non si può parlare, quindi, di proprietà intellettuale. Chi possiede una copia di quell’opera, per averla comperata o ricevuta in regalo, ne è proprietario (proprietario della copia, non dell’opera in sé, diventata ormai di dominio pubblico) e può farne quello che vuole, se è vero che la proprietà, dominium ex jure Quiritium, come dicevano i Romani, è jus utendi et abutendi.
      Una casa farmaceutica produce un nuovo farmaco. Ha tutto il diritto di tenerne segreta la formula, fin quando può. Potrà imporre un prezzo di gran lunga superiore alle spese di produzione e alla remunerazione del capitale. A un certo punto un altro soggetto (ad esempio una casa farmaceutica concorrente) riesce a scoprire la formula e la riproduce, mettendo in commercio un farmaco equivalente a prezzo più basso. Altre case concorrenti fanno lo stesso. Il prezzo del farmaco sul mercato si abbassa finché il costo costo marginale eguaglia il prezzo marginale. Ne beneficiano i malati bisognosi di quel farmaco, le assicurazioni che offrono polizze sui ricoveri ospedalieri e sulle spese sanitarie e, se c’è e dove c’è, il Servizio Sanitario Nazionale (pagato dai contribuenti). Anche qui, nessuno ha rubato niente a nessuno. C’è di più: una casa farmaceutica che mette sul mercato un nuovo farmaco deve la sua scoperta ai ricercatori che sono alle sue dipendenze, remunerati con uno stipendio fisso. Quanta parte delle rendite che lucra grazie alla proprietà intellettuale (qui sotto forma di brevetto) viene riconosciuta a tali ricercatori? Nessuna. Tutto finisce a bilancio nella voce “profitti” . Questo in termini marxiani si chiama plusvalore.

    • Una considerazione banale ma pragmatica: se elaboro una idea “nuova” in un contesto economico reale (quindi mi riferisco non tanto alla creatività artistica o alle grandi scoperte/invenzioni della scienza, ma a processi industriali, algoritmi di calcolo, tecnologie costruttive, che costituiscono il vero problema e la vera applicazione del concetto di della proprietà intellettuale) nessuno mi vieta di difenderlo, anche in un contesto in cui sia assente il meccanismo perverso dei brevetti. Posso nascondere l’algoritmo o mettere in cassaforte i risultati delle ricerche industriali, al punto che forzare la cassaforte sarebbe un reato, commesso da un ipotetico concorrente: chi conosce nel dettaglio gli algoritmi dei motori di ricerca? Chi conosce i criteri con cui i “controller” decidono quale deve essere il costo di una automobile? Nessuno, sono ben protetti. Il “brevetto” va oltre questo: impone l’onere della difesa (= limitazione dell’uso di una idea) a tutti e non solo all’ideatore, perchè la difesa è sostenuta dallo Stato.

  • Due contro uno? Non ho scampo! 🙂

    Il furto dell’ “altro soggetto” sta nel fatto che defrauda l’editore del prezzo di copertina e chi ha scritto l’opera delle sue royalties. Poi si può entrare nel ginepraio dei sofismi e dire che magari chi vende le copie “parallele” lo fa abbassando il prezzo e favorendo gente che non avrebbe comunque mai comprato l’opera a prezzo pieno e che quindi è un vero benefattore, ma così non se ne esce più.

    Bello l’es. della casa farmaceutica, ma bisogna vedere se la stessa investirà ancora in ricerca se un qualsiasi laboratorio chimico potrà vanificare mesi o anni di studi
    semplicemente analizzando i componenti faticosamente scoperti da ricercatori
    stipendiati (obbligati con pistola alla tempia?) che agiscono con lavoro di squadra, per cui neppure volendo si potrebbe attribuire la paternità ad una singola persona, se non a tutta la struttura, che è poi la ditta.

    L’amico Leporello infine cita la difesa dei brevetti col segreto: ebbene se il segreto
    è sufficiente ben venga in quel caso l’abolizione della proprietà intellettuale, ma non tutto si può custodire in cassaforte.

    Anche io ho fatto uso di fotocopie e cassette duplicate, però sono conscio
    che non sono state azioni molto limpide. Certo le scuse c’erano tutte e belle pronte: prezzi alti, uso strettamente personale e non ne ho fatto commercio. Per come sono fatto io non riesco a considerare furto solo un qualcosa che sottrae solo beni tangibili.

    • Per giustificare il diritto d’autore, sul “Corriere della sera” di qualche giorno fa Massimo Sideri lo fa risalire all’esclusiva che nel 1469 la Serenissima Repubblica di Venezia concesse al tipografo Giovanni da Spira per la pubblicazione della “Naturalis historia” di Plinio il Vecchio in tutto il territorio statale. Non poteva scegliere esempio più infelice. Plinio il Vecchio era morto da circa 1400 anni; né a lui né ai suoi eredi si poteva riconoscere alcun diritto i proprietà intellettuale. E non si vede perché solo Giovanni da Spira dovesse avere il privilegio di stampare l’opera del grande naturalista perito nel cataclisma pompeiano del 79 d.C. Dove si vede che il “copyright” è un ingiustificato favore concesso dallo Stato a beneficio di certi soggetti e a scapito di altri: in primo luogo dei consumatori.

  • Alessandro Colla

    Chiedo scusa per il tre contro uno ma l’altro soggetto non defrauda l’editore del prezzo di copertina. Il prezzo di copertina è libero e può capitarmi di editare qualcosa di già pubblicato da altri a un prezzo inferiore o superiore. Superiore perché magari il primo editore ha costi inferiori in quanto sono anni che sta sul mercato e ha finito di pagare il mutuo della sua sede sociale (e magari anche quello della sua abitazione) mentre io sono all’inizio. Oppure perché la mia copertina è più bella, dorata, firmata Armani (???) e quindi costa di più. Il furto all’autore avviene con la disciplina attuale ma in un mercato libero (e il mercato o è libero o non è mercato) non si potrebbe considerare furto la pubblica lettura di uno scritto o la sua riproduzione. In una situazione di libertà compiuta, gli autori custodirebbero i propri lavori in cassaforte fino al cospicuo assegno ( o bonifico) dell’editore emesso in loro favore. Avrebbero un guadagno immediato e nei casi degli autori non di grido, maggiore di quanto incassano ora con i diritti. Come, richiedo scusa? Gli autori esordienti non avrebbero alcun assegno? Perché oggi, forse, non si chiede loro di rinunciare ai diritti e di pagarsi le spese di stampa? Ecco, finirebbe questa vergogna delle spese affibbiate all’autore; considerando che l’editore è un soggetto d’impresa, dovrebbe essere logico che sia lui a sobbarcarsi delle spese imprenditoriali. L’esordiente che la prima volta non viene pagato potrà considerare un investimento quel suo mancato primo pagamento per ottenere la notorietà e chiedere di più per il suo eventuale secondo lavoro. In fondo anche lui è un soggetto di lavoro autonomo. A meno che l’editore non lo paghi mensilmente per scrivere un tot l’anno. Allora si prenda quei mille o duemila o tremila euro al mese, scriva quello che gli piace o ciò che gli viene ordinato. Come da contratto. Chi dei due non onora tale contratto sarà citato in giudizio dall’altro. Nessun laboratorio chimico vanificherà gli sforzi della ricerca. Anzi, la ricerca avverrà in concorrenza e quindi ci sarà maggiore stimolo a investire per cercare nuovi prodotti e vendere prima degli altri. I brevetti fossilizzano la ricerca. Ci si limiti a proteggere la firma perché è giusto ricordare che il telefono lo ha inventato Meucci e non Bell ma non si può impedire a Bell di produrre telefoni. Guarda caso, proprio in nome del regime brevettistico il citato Meucci è morto povero. Senza il brevetto assegnato a Bell, anche l’inventore italiano avrebbe probabilmente prodotto e venduto. Che cosa non si potrebbe custodire in cassaforte?

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