Don Giovanni

L’abusiva legittimità, con Fabio Massimo Nicosia oltre Rothbard e la stagnazione accademica del pensiero libertario.

L’anarchismo non è per niente semplice. Si ha un bel dire: “Aboliamo lo Stato”. Sorgono subito due problemi: come? In cambio di che cosa? Se il primo è di soluzione tutt’altro che ovvia, il secondo è tale da far tremare le vene e i polsi. Al male spesso è succeduto il peggio, come ben sapeva quella vecchietta che pregava per la buona salute del tiranno di Siracusa, nel timore che alla di lui morte potesse arrivarne uno ancor più crudele.

Oggi non abbiamo più dèi ai quali rivolgere le nostre preghiere. I cieli sono vuoti. Nessun disegno immanente o trascendente prende forma nel corso della Storia. Come Amleto, abbiamo mille dubbi e nessuna certezza. E la nostra responsabilità verso il prossimo e verso i posteri per le scelte che compiamo qui e ora diventa pesante come un macigno.
Aboliamo lo Stato, d’accordo, ma attenti a non sostituirlo con una sua caricatura, eliminando ogni spazio pubblico e rendendo ogni proprietario di un’area privata arbitro dello “Ius excludendi”. Bel risultato! Anche adesso se voglio andare in Mozambico devo esibire l’ invito di un soggetto accreditato presso quel governo. Metti al posto del governo un capo-condominio monopolista del territorio. Cambia qualcosa? Eppure il modello cui aspirano tanti epigoni dell’ultimo Rothbard non è molto lontano da questo.

Ecco perché la lettura dell’ ultimo, poderoso lavoro di Fabio Massimo Nicosia, “L’abusiva legittimità. Dallo Stato ai Common trust”, è non solo consigliabile, ma addirittura obbligatoria per ogni persona che non solo si compiaccia di definirsi anarchica, ma voglia assumersi tale scelta ideale nella piena consapevolezza di tutto quanto comporta in termini di coerenza, sia sul piano razionale, sia su quello etico.

Sulla linea di quanto elaborato nelle sue opere precedenti, in particolare “Il dittatore libertario” e “Beati possidentes”, Nicosia ribadisce la sua opzione etica per la libertà e quindi per l’ antistatalismo anarchico pro-mercato. A differenza però dei rothbardiani, evita di innalzare a principio assoluto e fondativo il diritto di proprietà, pur riconoscendone, nei giusti limiti,
la funzione positiva. La vera garanzia della libertà è lo scambio contrattuale di mercato, quello in cui, concretandosi una situazione di ottimo paretiano, ognuno dei partecipanti esce pienamente soddisfatto. Viceversa, ogni apprensione arbitraria di un bene rimasto fino a quel momento senza titolarità comporta un vulnus al resto del consorzio umano, che si vede così deprivato di un bene cui ha diritto pro quota, in quanto la Terra, lungi dall’essere “res nullius”, è “res communis omnium”. L’apprensione arbitraria è esposta a ritorsione, a meno che non si pervenga a un accordo con le controparti, fissando una compensazione. A ben vedere, sono meccanismi di libero mercato, che il diritto privato ha formalizzato.

Come emerge da una simile situazione originaria lo Stato, che per la sua natura predatoria e coercitiva sembra costituirne l’antitesi? Emerge come abuso di posizione dominante da parte di un’ agenzia che approfitta di circostanze particolari(si pensi a un arbitro che a causa di una guerra si trovi ad avere all’improvviso fra le mani un cumulo di poteri altrimenti impensabili). Sua caratteristica precipua è l’inefficienza deliberata, grazie alla quale ricava lucro dai sudditi attraverso la predazione fiscale, il sistema daziario, il controllo territoriale, la minaccia della repressione poliziesca. Il monopolio dell’ emissione monetaria, un tempo esercitato direttamente dal principe e oggi dato in concessione alla Banca Centrale, introduce un altro elemento distorsivo e parassitario: la moneta “fiat”, prodotta dal nulla e assegnata a capriccio da un soggetto “altro”, costringe l’ autorità politica all’indebitamento, cui fa fronte attraverso l’inasprimento fiscale.
E il capitalismo in tutto questo che parte svolge? Storicamente non è mai stato anarco-capitalismo, ma ha marciato a braccetto dello Stato ottenendone protezione armata, licenze di sfruttamento minerario, esclusive, barriere all’entrata, monopoli artificiali basati sulla finzione giuridica della “proprietà intellettuale”. Lo sfruttamento coloniale è il frutto più perverso dello scellerato connubio.

Non viviamo in una società di mercato, ma in un sistema capitalistico a forti diseguaglianze, dove le multinazionali sotto lo scudo di esclusive, brevetti, licenze, copyright lucrano rendite a scapito dei consumatori. Altro che liberismo selvaggio, mercatismo e altre amenità del genere. Speranze per il futuro? La tecnologia da un lato può fornire al potere nuovi strumenti di oppressione, ma dall’altro può essere potente mezzo di emancipazione. La rete è il miglior esempio di come l’ economia di mercato moderna sia sempre meno rigidamente legata al diritto di proprietà. Gli utenti della rete si servono di un bene comune per attività d’ ogni genere, esprimendo la propria creatività in iniziative imprenditoriali immerse in un mercato sempre più refrattario ai monopoli artificiali della proprietà intellettuale. La rete è l’antitesi del territorialismo, è “agearchica”, non conosce confini. Altra potente erosione del potete monopolistico dominante è la sempre più diffusa produzione di moneta alternativa, il cui esempio più significativo è costituito da Bitcoin.

Anche lo Stato potrebbe mettersi su questa scia virtuosa, sprofondandosi in quel mercato da cui a suo tempo emerse. Basterebbe che, per far fronte al suo debito che ora lo costringe a vessare i cittadini con l’ imposizione fiscale, iscrivesse a bilancio, sotto la voce “beni patrimoniali”, tutto ciò che pertiene al cosiddetto “demanio” , secondo valutazioni d’estimo in linea con le più aggiornate concezioni della contabilità. Ne risulterebbe una ricchezza immensa, davanti a cui in quanto possibile retrostante di una copiosa emissione monetaria, il debito si ridurrebbe. I singoli beni verrebbero messi a frutto. Alcuni potrebbero diventare veri e propri “brand” su cui far pagare le “royalties”. Il diritto di sfruttamento potrebbe essere ceduto a “common trust”. I proventi andrebbero distribuiti ai veri proprietari pro quota dei beni pubblici, i singoli cittadini.

A questo punto lo Stato potrebbe essere indotto ad autoespropriarsi “per ragioni di pubblica utilità”, in base ai principi del diritto costituzionale. Alla lontana, si può vagheggiare un sistema di sostanziale eguaglianza basato sulla gratuità dello scambio. La fine della scienza triste?

Si può essere d’accordo e si può dissentire. Ma è un libro intelligente, che scuote, fa riflettere, induce a rivedere tante fragili certezze. Ha un impianto giuridico di prim’ordine grazie al quale l’ autore imposta rigorose categorie concettuali che gli consentono di svolgere con estrema coerenza le sue argomentazioni, fino alle più sottili implicazioni.

Grazie per il bel dono, amico Nicosia!

Giovanni Tenorio

Libertino