Don Giovanni

Viva le femmine e il buon vino

“I critici non capiscono niente”. Fu questo il drastico giudizio che mi sussurrò in un orecchio il grande Roman Vlad, finissimo uomo di cultura oltre che musicista di talento e divulgatore di prim’ordine. Me lo disse -io ero in incognito, non mi riconobbe, ma forse ebbe qualche sospetto a proposito della mia identità- dopo una conferenza alla Scala sull'”Attila” di Verdi, in cui non esitò a sfidare il giudizio consueto, sostanzialmente negativo, a proposito di quest’Opera “minore” del Bussetano, corroborando le sue affermazioni controcorrente con inoppugnabili esempi al pianoforte. Nell’occasione, non rinunciò a esprimere, sempre in privato, le sue più aspre rampogne contro la RAI, che gli mandava in onda le sue letture divulgative dei capolavori mozartiani -accessibili a tutti, eppur sottilissime- a mezzanotte e oltre (era l’epoca in cuoi si celebrava il bicentenario della morte di Mozart).

Ho ripensato al giudizio di Roman Vlad sui critici dopo aver letto la recensione di un sul “Don Giovanni” che ha aperto la sessantesima edizione del Festival dei Due Mondi a Spoleto. C’ero anch’io alla prima, caspita se c’ero anch’io! E come potevo non esserci? In incognito, naturalmente! Come uno spettatore qualunque, con un biglietto di loggione. Mica volevo associarmi alle aborrite autorità che gremivano la platea, insozzando con i loro augusti deretani le poltrone del delizioso Teatro Nuovo “Gian Carlo Menotti”, la cui acustica mirabile raggiunge, in piccionaia, effetti addirittura prodigiosi. Volevo proprio vedere se il regista Giorgio Ferrara avrebbe reso un buon servizio al mio papa’ Mozart anche nel capolavoro supremo della trilogia di Da Ponte(l’altro mio caro papà), dopo l’eccellente riuscita dei suoi allestimenti per gli altri due capolavori, “Nozze di Figaro” e “Così fan tutte”, presentati rispettivamente l’anno scorso e due anni fa all’apertura del Festival. Capolavoro supremo, quello che porta il mio nome, certo! Al punto che un mammasantissima come Toscanini diceva di non saperlo dirigere. E come potrebbe non esser tale? Il protagonista sono io, il più grande libertino di tutti i tempi, e la musica è del più grande musicista in assoluto (mi perdoni il divino Bach, che pur adoro, mi perdonino tutti gli altri musicisti che mi stanno nel cuore: ma di babbo ce n’è uno solo; anzi, a dire il vero io ne ho due, genitore 1 e genitore 2, perché di mamma non ne ho, e non è che me ne freghi più di tanto).

Il criticonzolo di cui sopra, come sempre, non ha capito nulla. Dice che la regia ha ridotto me, Don Giovanni, a un poveretto, deprivandomi d’ogni carica erotica. Una sciocchezza del genere qualcuno disse anche a proposito delle “Nozze” dello scorso anno: mancanza di erotismo. I criticonzoli d’oggi, abituati alle oscenità (in senso estetico, si intende! Un bel culo nudo può anche essere bello, se compare dove deve comparire) del teatro di regia, credono forse che per mettere in scena un “Don Giovanni” erotico mi si debba debba mostrare in ogni momento con il pinco ritto in mano; oppure, mentre suona l’Ouverture a sipario aperto, nell’atto di fottere Donn’Anna che gode come una troia…

Siamo nel Settecento, signori miei, l’epoca della raffinatezza rococò, della dissimulazione, della sublime ipocrisia. Quanti doppi sensi nei versi di Da Ponte, che Mozart riprende ed esalta con la sua musica sublime, avvolgendoli nel velo erotico di un’eleganza senza pari! Il signor criticonzolo aveva le fette di salame sugli occhi durante la scena in cui, nei miei panni ,l’ottimo Dimitri Tiliakos faceva la corte a Zerlina? Quante moine, quante carezze, quanti bacetti! Mancanza d’erotismo? Ma mi si faccia il piacere! Ho fatto proprio così, nella realtà, lo giuro sul mio onore! Avessi esibito l’uccello, Zerlina (nell’occasione, la deliziosa Arianna Vendittelli, che l’anno scorso fu un’incantevole Barbarina nelle “Nozze”) sarebbe immediatamente fuggita. Invece, come ben sapete, a farla fuggire fu quella rompiballe di Donna Elvira (ben interpretata, qui, da Davinia Rodriguez. Donn’Anna è l’eccellente Lucia Cesaroni, che l’anno scorso fu una gustosissima Susanna).
Ferrara ha interpretato il mio personaggio partendo esplicitamente dall’analisi che ne fa Kirkegaard. Il quale ha capito tutto: è vero, io sono una forza di natura, sono l’Eros al di là del bene e del male che solo la potenza della musica sa rappresentare. Il criticonzolo dice che la filosofia e il teatro sono due cose diverse. Fin qui, è una banalità. Anche una testa di legno come Leporello (nel nostro caso, il veterano, impareggiabile Andrea Concetti) sa che A non è uguale a B: “Signora, veramente, in questo mondo, conciossiacosacomefosseché, il quadro non è tondo…”. Ma la filosofoia può essere un ottimo viatico per giungere a un eccellente allestimento teatrale, come nel nostro caso. Forse che il pensiero filosofico tarpa le ali a Leopardi nella stesura delle “Operette Morali”, perché filosofia e letteratura son cose diverse? Proprio no, con buona pace di Benedetto Croce. E il grande teatro di Pirandello sarebbe un fallimento per il suo sostrato filosofico? Tutt’al contrario, ancora una volta con buona pace di Don Benedetto.
Due parole sulla concertazione di James Conlon, che non è un direttore di “buon mestiere”, ma un interprete di gran classe. Ci ha dato un Mozart insieme robusto e raffinato, ottenendo dall’orchestra suoni morbidi ma non estenuati, senza imprimere al fluire del discorso musicale quei tempi concitati e quei ritmi elettrici che tanto piacciono alla vulgata d’oggi, tutta tesa a riportare il”Don Giovanni” del mio papà ai vieti stilemi del “dramma giocoso”. Il quadro non è tondo, signori miei: Mozart non è il Cazzaniga del “Convitato di Pietra”, messo in scena qualche mese prima del mio esordio a Praga,, su un libretto di Bertati che il mio genitore 2, Da Ponte, ha ampiamente scopiazzato, di gran lunga migliorandolo (oggi finirebbe in tribunale per violazione di copyright). Conlon ha mantenuto un perfetto equilibrio fra parti comiche e parti drammatiche, smentendo in concreto quanto sostenne qualche tempo fa il grande scenografo Ezio Frigerio: essere il capolavoro mozartiano un’Opera per alcuni aspetti non riuscita, per la presenza di parti comiche in un contesto tragico che avrebbe diritto ad avere tutta per sé la sublime musica del Salisburghese. Proprio no. Mozart e Da Ponte sono come Shakespeare: sanno mischiare in modo mirabile il lato comico e quello tragico dell’esistenza, in un equilibrio che solo una grande concertazione può rendere a dovere. E Conlon è un grande concertatore: lo ha dimostrato eseguendo con la precisione di un orologio il Sestetto del secondo Atto, che ha strappato, come capita raramente, un applauso a scena aperta. La Callas aveva visto giusto: lo chiamò “Maestro” quand’era ancora studente. Allo schermirsi di quello (anche oggi Conlon è persona affabile, non è uno che se la tira come tante mezze calzette), replicò: “Ti ho visto dirigere. Uno che dirige come te diventerà un Maestro”.

Questo “Don Giovanni” spoletino è il trionfo delle donne. L’orchestra giovanile “Luigi Cherubini” è formata, specialmente negli archi, da una maggioranza di fanciulle brave e belle. Una gioia degli occhi e degli orecchi. Ben vengano le orchestre tutte fatte di donne, alla faccia dei Wiener e dei Berliner, che fino a qualche lustro fa escludevano il gentil sesso dalle loro compagini. Ora sono rinsaviti, per fortuna. Nel mondo cosiddetto civile di maschilista è rimasta solo Santa Romana Chiesa, che di pretesse (si dice così, in gergo politicamente corretto?) non ne vuol proprio sapere, a dispetto delle aperture francescane. A quando un grande direttore d’orchestra donna? Speriamo presto. C’è già qualche buon esempio che promette bene. Non credo proprio che la bacchetta sia un simbolo fallico, impugnabile solo da chi possiede l’uccello.

Un altro bel trionfo femminile, nei primi giorni del Festival, è il “Requiem” in memoria delle vittime del terremoto dello scorso anno in Centro Italia (anche Spoleto ha subito qualche scossa, per fortuna con danni minimi). La musica è di una eccellente musicista d’oggi (compositora? Compositrice? Bel problema…), Silvia Colasanti, che ha composto una partitura suggestiva e toccante, eseguita da un’orchestra anch’essa prevalentemente femminile. Il coro è stato preparato, come nel “Don Giovanni”, da Gea Garatti. Solista di canto la splendida Monica Bacelli; le parti recitate sono state lette, in modo struggente, dalla poetessa Mariangela Gualtieri, che ne è anche l’autrice. Fra i pochi maschietti, anche qui, il direttore Maxime Pascal, eccellente, e il bravo sonatore di bandoneon Richard Galliano.

Neppure è da dimenticare, nell’esibizione dell’ ottimo Quartetto TAAG, con musiche di Schubert, Haydn, Debussy. la giovane violinista Alessandra Deut: viso pulito, bei lineamenti, portamento elegante, dolce sorriso. Bell’arco, bel suono. Anche qui, gioia degli occhi e degli orecchi…
In somma, una vittoria piena delle donne, senza bisogno delle quote rosa che piacciono tanto alle oche, come Boldrini e compagnia. Qui di oche non ce ne sono. Sono brave, ed è per me una gioia che abbiano avuto il meritato successo. Non sarò certo io a chiedere le quote azzurre.

Viva le femmine, viva il buon vino, sostegno e gloria d’umanità.

Giovanni Tenorio

Libertino

Un pensiero su “Viva le femmine e il buon vino

  • Alessandro Colla

    Nel frattempo a Roma viene riproposta Tosca con le guardie pontificie in camicia nera e un allestimento ambientato negli anni trenta del ventesimo secolo. Ad opera, se non ricordo male, di un certo “regista” di cognome Pizzi. Nulla di originale tra l’altro, già era stato proposto da qualche decennio il ridicolo di “Bonaparte vincitor” con i personaggi in divisa littoria. Ero indeciso se andare o no, “vorrei e non vorrei”. Ha prevalso il non vorrei, ho risparmiato i soldi e le idiozie dei commenti favorevoli di qualcuno del pubblico. Non so se Arianna Vendittelli sia parente con un docente di solfeggio a Santa Cecilia che ebbi occasione di conoscere qualche decennio fa, ricordo solo il cognome e la sua passione per l’attività sportiva più seguita dagli italiani. Direttrici d’orchestra rammento Sarah Caldwell, non saprei giudicare se vada annoverata tra le grandi. L’unico errore di Vlad fu di candidarsi con i craxiani; per poi non essere eletto. Anche nell’analisi, Croce ha dimostrato di non essersi mai autenticamente affrancato da eredità hegeliane in campo estetico. Dico “anche”, perché si è rivelato contraddittorio nelle scelte di campo fondamentali. Non basta definirsi liberali per esserlo veramente. Dario Fo lo contestava per i suoi giudizi si Cielo (o Ciullo ) d’Alcamo. Ma era hegeliano pure Fo. I critici? Anche Abbiati non amava l’Attila, per lui Verdi era solo Don Carlos, Otello, Falstaff e gli inni sacri. Poi, però, scrive una biografia sul bussetano lunga un kilometro. Ricordo Guido Pannain, antipucciniano di fatto. E non condividevo. Massimo Mila mi sembrava più equilibrato. Su Enrico Cavallotti non saprei cosa dire, nelogismi forzati a parte: che la musica termini con Beethoven mi sembra eccessivo. Ho visto le fotografie di Silvia Colasanti, somiglia a Virginia Raggi. Spero solo nel volto.

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