Don Giovanni

Economia politica francescana (il “bene comune” colpisce ancora)

Francesco
Francesco

C’era una volta un giovane bello e attraente, rampollo d’un ricco mercante di stoffe. Per un po’ di tempo si godette la vita, da vero epicureo come me: belle donne, sontuosi festini, abiti eleganti, splendidi cavalli. Poi, dopo una malattia, ebbe una folgorazione, come quell’altro personaggio sulla via di Damasco: di punto in bianco cambiò vita, si rese nullatenente, andò in giro vestito di sacco dopo aver donato tutti i suoi vestiti ai poveri. E ai poveri cominciò a donare anche i vestiti che produceva e vendeva suo padre. Il quale, con qualche buon motivo, si imbestialì, e da allora di quel figlio bizzarro non ne volle più sapere. A me quel ragazzo rimane simpatico (mentre mi disgusta un po’ il padre, di cui pur comprendo le ragioni), come mi sono simpatici tutti i mattoidi. A ben vedere, era un anarchico anche lui, come me: lui in nome di Cristo, io di Epicuro. A ognuno il suo dio, a ognuno il suo profeta! Ma poi, tutto sommato mi è simpatico anche Cristo: condannato a morte per lesa maestà, cioè per disconoscimento dell’autorità politica. Anche a lui lo Stato non doveva piacere troppo, anche lui era un anarchico…
C’è oggi un signore che si fa chiamare come quel ragazzo e dice di essere il portavoce di quell’altro condannato a morte in nome di Cesare. Non si veste di sacco, ma indossa un abito bianco, siede su un trono, anche se fa finta di no, è un monarca assoluto, anche se simula di essere servo dei servi, ha un esercito di mercenari svizzeri, del tutto inutili, che sfoggiano una goffa divisa del tempo che fu, ha una banca dove in un passato non molto lontano se ne sono viste di tutti i colori. Paga i suoi subordinati che lavorano nel Bel Paese attingendo il denaro da una fettina dei proventi che lo Stato italiano ruba ai propri sudditi attraverso il sistema fiscale, e facendosi con ciò complice del furto. Fa la carità con i soldi degli altri, a dire il vero donati spontaneamente dai suoi seguaci proprio per questo scopo, e dice ai governi che anche loro devono farla con i soldi degli altri, in questo caso però non donati spontaneamente dai sudditi, ma rapinati dalle loro tasche a mo’ di pizzo mafioso. Proprio in questi giorni se n’è uscito con uno scritto di economica politica, dove esibisce una logica così stringente che, al suo cospetto, le tesi tanto lodate d’un Paul Krugman sono discorsetti da ragazzini. Sentite questa: nella crisi economica in cui ci stiamo ancora dibattendo, le banche sono state salvate ai danni dei poveri. Fin qui il discorso non fa una piega. Non si chiarisce però che il furto è stato perpetrato dai governi in combutta con le banche centrali, stampando denaro come farebbe un qualsiasi falsario: un crimine commesso da autorità “legittime” che, nella vulgata corrente, dovrebbero essere preposte a quel “bene comune” di cui tutti blaterano – in primis i preti- senza che nessuno si prenda la briga di spiegare in concreto cos’è. Quale dovrebbe essere la conseguenza logica di tale osservazione, in sé inoppugnabile? Che bisogna spazzar via tali autorità, mandare a quel paese governi e banche centrali, rimettere in auge una moneta vera, o meglio un insieme di monete vere, prodotte da soggetti privati in concorrenza tra loro, e lasciar fare al mercato: tutto il contrario della moneta imposta da un potere monopolistico che da un lato la manipola a suo piacimento, dall’altro pretende di garantirne il valore. Chi arriva alla bancarotta per scarsa oculatezza – può essere una banca che ha concesso prestiti senza garanzie, o un’impresa che ha fatto investimenti non remunerativi- dev’essere lasciato fallire. Il fallimento provocherà, in un settore più o meno ampio, un momentaneo disagio, che potrà anche avere risvolti dolorosi ( distruzione di risparmi, disoccupazione), ma servirà a correggere una situazione guasta, consentendo, dopo un ragionevole periodo di assestamento, una ripartenza sana. Il famigerato “New Deal” di Roosevelt, che pullulava di “authorities”, anziché risolvere la crisi del’29, la prolungò. La precedente crisi del ’20-’21 s’era risolta da sola, nel giro di un anno circa, prima che il governo riuscisse a metterci il becco guastando tutto. Chiaro, no? E invece, che dice il Nostro? Che la colpa non è delle autorità, ma del mercato, che bada solo al profitto ed è tutto teso a rovinose speculazioni per motivi egoistici, in contrasto con i principi del “bene comune”. Se le autorità hanno una colpa, è quella di essere troppo deboli. Vanno rafforzate. Così ci diranno loro quel che si deve fare, nessuno meglio di loro sa che cos’è quell’Araba Fenice del “bene comune”. Anzi, il meglio sarebbe addirittura un’autorità suprema a livello mondiale. Un Cesare cui bisogna dare quel ch’è di Cesare, obbedienza e rispetto. Anche quando stampa moneta falsa e ruba ai presunti ricchi per dare ai presunti poveri. Il mercato, cioè l’interazione spontanea di migliaia di individui, è cieco; la cosiddetta “mano invisibile” combina solo guai. Cesare no che non sbaglia! Il Duce ha sempre ragione.
Aveva ragione anche quando condannò a morte il Figlio di Dio?
Risponda, per favore, signor biancovestito.

Giovanni Tenorio

Libertino